martedì 28 luglio 2015

SARDUS PATER romanzo completo





























SARDUS PATER
Romanzo di Mariano Abis
Oltre un secolo di storia popolare



Una melodia si sparge nell’aria, in quell’anfiteatro naturale di questo pezzo di ogliastra, un suono leggero e soave, ma triste, note eteree che esprimono in maniera persino troppo evidente lo stato d’animo di chi suona. E certo lo strumento musicale, se pure artigianale, per non dire rudimentale, è bene accordato, secondo i canoni musicali usuali di questo pezzo di sardegna. Sempre le stesse note, che si ripetono in maniera persino troppo ossessiva, pur lasciando campo libero a qualche sprazzo di melodia. 






 




Non è la prima volta che Antoneddu può godere di quei suoni, ogni giorno è sempre la stessa storia, anche se deve riconoscere che la tecnica usata diventa sempre più raffinata. Certo è che la parola stride in tutto il contesto che è costretto a vivere, di raffinato, nella sua vita, non c’è assolutamente nulla. E nemmeno nella vita di chi suona. Una vita di sacrifici, il dover sopportare la presenza delle zanzare e il caldo estivo, stemperato però da una leggera brezza che non manca mai, o la fastidiosa presenza del vento freddo d’autunno, o di quello impetuoso della primavera. Per chi trascorre la sua esistenza fuori da casa, fare l’abitudine alle intemperie è la quotidianità. Tutto deve essere programmato in funzione della natura, scegliere i luoghi più riparati se in presenza del maestrale, o meno esposti al vento freddo in periodo invernale, o cercare zone ventilate in estate, col viso rivolto a quello spettacolo naturale, di un colore smeraldo brillante e traslucido, che si chiama mare. Il mare della sardegna ipnotizza, se guardato intensamente, e Antoneddu, pur potendo godere di altri diversivi, trascorre molto del suo tempo guardando verso est, verso quella immensa pianura smeralda, che degrada verso un azzurro sempre più scuro, man mano che l’occhio si rivolge verso l’orizzonte, fino a diventare blu intenso. Del resto, è forse l’espressione più spettacolare che la sua terra offre. E a fare da elegante contrasto al mare, si distende a perdita d’occhio, il verde scuro della macchia mediterranea. Questa si, non piatta, ma ondulata, in un susseguirsi di colline sempre più alte, fino alla vista dei monti, dove gli arbusti lasciano il posto a grandi piante secolari di querce. Nella vallata dove pascolano le pecore di Antoneddu, la macchia mediterranea diviene ogni anno più rada per il fatto che qualche volta, i terreni dove lui stesso porta a pascolare le greggi, viene invasa dalle capre del padrone di quella vallata. Abusivamente, perché il contratto verbale che ogni dieci anni viene stipulato, prevede il pieno utilizzo di quella vallata, da parte delle greggi dei genitori di Antoneddu e di suo cugino. Ma il gregge delle capre, condotto da un pastore alle dipendenze del proprietario, in genere, sceglie di pascolare in mezzo alla macchia mediterranea, lasciando campo libero alle greggi controllate dal ragazzo, e a quelle di suo cugino Gavino, il suonatore di flauto. E anno dopo anno, le capre preparano ampi spazi a disposizione delle pecore. La situazione viene ben tollerata, perché porta vantaggi ad entrambe le parti. Solo quando a fine di ogni estate, le famiglie di Antoneddu e Gavino si coalizzano, e bruciano parti ben delimitate delle vallate, per preparare pascoli più abbondanti per l’anno successivo, a volte nascono accese discussioni tra il padrone, e i genitori dei due ragazzi. Simili avvenimenti sono ben graditi ai due ragazzi, contenti di assistere a qualcosa di inusuale, che spezza la noia ripetitiva di due vite senza stimoli. Sanno benissimo che i due genitori, se alle strette con il padrone della vallata, cederanno ad ogni considerazione, non possono certo mettere a rischio la sopravvivenza delle rispettive famiglie. Il padre di Antoneddu, Boicu, ha altri due figli in tenera età, come pure il padre di Gavino, Stevini. Eppure Antoneddu e Gavino, avendo entrambi solo una decina di anni, sanno che li aspetta tutta una vita di fronte a loro, ma immaginano che essa non potrà mai riservare loro grosse sorprese. E si adattano a trascorrere un’esistenza grama e senza prospettive, il tempo dei giochi, per loro, è ormai dimenticato, e godono solo di qualche giornata particolare durante le poche feste paesane, sostituiti nel controllo delle greggi, per l’occasione, dai rispettivi genitori. E proprio quando un certo impegno, per loro diventa più gravoso, lo accolgono con gioia. All’inizio dell’inverno, infatti, quando l’erba è ormai inesistente, e i primi freddi si avvicinano, i due ragazzi fanno compagnia ai genitori, nel lungo viaggio verso sud, verso il campidano, dove troveranno condizioni migliori per le loro greggi. Ma dopo qualche settimana, anche quella vita diventa ripetitiva; alzarsi di buon mattino, mungere, accompagnare il gregge verso gli stessi pascoli, e dove passano le pecore delle due famiglie ogliastrine, resta tabula rasa. I due genitori son ben conosciuti nel paese campidanese, che hanno deciso di scegliere per il loro sostentamento invernale, e si fanno apprezzare per la correttezza che dimostrano, cercando in tutti i modi di impedire alle greggi di sconfinare in terreni altrui. Certo è che i dissidi tra i proprietari dei terreni, e i pastori provenienti dalle montagne, non sono sempre idilliaci, e capita di assistere ad accese discussioni. Un diversivo per i due ragazzi. E infatti, nonostante il freddo e la pioggia, che a volte li obbliga a stare rintanati al riparo, e per il fatto che non hanno conoscenze in pianura, trascorrono questi quattro mesi in maniera stranamente un po’ meno noiosa del solito. Abitano in una casa mezzo diroccata di proprietà dell’agricoltore che concede loro, per quattro mesi all’anno, di far pascolare in un enorme appezzamento di terreno, le loro pecore, che può soddisfare le esigenze dei due pastori. Ma capita spesso che i due approfittino di occasioni ghiotte, quando qualche altro modesto contadino, consente loro di pascolare dove aveva coltivato ortaggi. E allora per le greggi, è una vera e propria festa, e tornano all’ovile con la pancia gonfia in maniera evidente. E i due Ogliastrini, quando Antoneddu e Gavino sono al pascolo, mettono a posto parti della casa diroccata, e si improvvisano maistus de muru, cioè maestri di muri, costruttori di case. E anno dopo anno, la grande casa, viene ristrutturata, naturalmente in maniera approssimativa, e rustica, ma diviene sempre più vivibile. E non è il classico stazzu, che i due ragazzi conoscono bene, avendo nella loro vallata una rudimentale costruzione comune, e due distinti recinti per le pecore; ma il tutto, là nella vallata, è approssimativo, e non si può considerare un’abitazione, ma un semplice rifugio. Qui in campidano Boicu e Stevini stanno ristrutturando una vera e propria abitazione. E anno dopo anno il padrone dei terreni, si ritrova a poter disporre di una vera e propria casa che può essere abitata, per i restanti otto mesi di ogni anno. E ricava dall’affitto che le due famiglie ogliastrine pagano, carne, latte, e formaggi in abbondanza. Lui è uno dei più grossi latifondisti del paese campidanese, anche se bisogna dire che le proprietà, qui, sono abbastanza conformi tra loro, e ogni contadino può disporre di terreni sufficienti per portare avanti una vita decorosa; non esistono, cioè, quelle disparità che fanno della zona ogliastrina un universo nettamente diviso in due settori. Il settore dei proprietari terrieri, sempre ben vestiti, dall’aria supponente, che guardano dall’alto in basso i poveri pastori, e i pochi contadini e allevatori, costretti ad una vita assurda e disagiata, e quel che è peggio, senza prospettive. E il sistema che si è affermato da secoli, è quanto mai penalizzante per la gente povera. Un sistema feudale ereditato dalla dominazione spagnola, che non ha mai tenuto conto dei bisogni dei poveri cristi. Ma gli Spagnoli sono andati via da tempo dall’isola, sostituiti dalla dominazione austriaca. Ma anche loro non avevano interesse per questa terra che offriva ben poche opportunità di lucro, e la lasciarono ai Piemontesi, anche loro abbastanza restii ad occupare territori poveri, abitati da gente miserevole. E i nuovi dominatori, i Piemontesi, nel continente, avevano una visione della società isolana molto realistica, in un libro si descriveva la sardegna come abitata da gente infinitamente povera, sudicia, per nulla colta, e dalla quale si poteva ricavare ben poco. Ma per secoli, la gente Sarda, pur con redditi così poco rilevanti, doveva consegnare ai vari dominatori politici e alla chiesa, una parte cospicua dei propri, pochi, miseri redditi, che di per se, non erano sufficienti per condurre una vita che non fosse di continua emergenza. E la povertà dominava, mentre i pochi fortunati, conducevano una vita in perenne vacanza, nelle loro case dorate, a spese della povera gente, costretta in pratica, a lavorare per loro. E costoro potevano mandare a scuola i propri figli, che sarebbero dovuti diventare la classe dominante del futuro. Avvocati, commercianti, magistrati, letterati, e scrittori. E se pure la classe colta, in genere, se illuminata, riesce a migliorare in qualche modo la società, loro erano così legati ai loro esclusivi interessi, che risultavano ininfluenti in tal senso. Eppure quelli erano gli anni di un riscatto mai verificatosi prima nel mondo, e anche in sardegna si aveva sentore che gli avvenimenti stavano imprimendo una diversa direzione alla storia dell’umanità. Le monarchie assolutistiche del vecchio continente, ad una ad una, dovevano lasciare il potere, investite dal vento democratico della rivoluzione francese. Ma in sardegna tutto ciò risultava ininfluente. Solo che la gente era informata di tutto ciò, in maniera magari frammentaria, dall’unico mezzo di conoscenze a disposizione, dato che le scuole erano frequentate solo dai benestanti, e la stragrande maggioranza della gente non ne poteva usufruire. Durante le feste paesane, venivano organizzate delle attrazioni, per così dire, culturali; in pratica qualche infarinatura che la gente aveva, sugli avvenimenti contemporanei, o sulla storia passata, era fornita dai classici poeti Sardi, is cantadores. Il meccanismo di diffusione di notizie, è presto detto: chi organizzava le feste paesane, decideva di volta in volta l’argomento da trattare, e i tre o quattro poeti invitati dovevano cimentarsi a turno sui temi imposti, in rima, e in base alle loro conoscenze, e ampliare il tema, con esempi che in genere si rifacevano ad avvenimenti mitologici o storici, e chi di loro era più erudito, o aveva un repertorio di nomi da ricordare superiore, metteva spesso in difficoltà i contendenti. Per forza di cose tutte quelle persone, che giravano l’intera isola, dovevano avere almeno una qualche cognizione di causa sui più svariati argomenti, non si potevano certo considerare persone colte, a loro bastava conoscere pochi elementi, che puntualmente riportavano ad ogni cantada. Erano investiti da una alone di cultura, per la povera gente, che certo non poteva giudicare se i fatti riportati fossero stati narrati in maniera precisa, o abbelliti da qualche fronzolo posticcio. Loro trasferivano le poche nozioni delle quali erano in possesso, completamente, alla gente, che sostituiva così, in maniera frammentaria, la frequentazione di una scuola. Ma un argomento in particolare era perfettamente conosciuto da quei dispensatori di cultura spicciola, e lo integravano con sempre nuove informazioni. Erano dei veri e propri esperti della storia del popolo Sardo. E non si limitavano a descrivere i vari periodi storici, in maniera superficiale, no, aggiungevano continuamente dettagli fondamentali, che gli altri contendenti, e la gente, assorbivano pure loro. Un metodo spicciolo per generare cultura e tramandare la storia del popolino, sempre in contrapposizione ai libri della borghesia, che raccontava fatti dal loro punto di vista, il punto di vista delle elite. E se loro, per esempio, nel raccontare una rivolta, parlavano di sovversivi, i cantadores li descrivevano come patrioti. E i loro racconti spaziavano nella mitologia greca, che annoverava anche il mito di atlantide, e al riguardo non mettevano assolutamente in discussione il fatto che la loro isola si identificasse con quella terra immaginaria. E raccontavano la storia di Jolao, figlio di Ercole, che, arrivato in sardegna, non volle mai più lasciarla, perché stregato dalla bellezza dei paesaggi. E conoscono bene la storia che hanno scritto in queste terre i mitici Shardana, i Fenici ed i Romani, che hanno entrambi dominato per molto tempo, rimarcando però il fatto che mai le montagne barbaricine siano state violate dai loro eserciti, ricacciati ogni volta indietro. E nulla poterono, in quei luoghi impervi, nemmeno Mori e Saraceni. E raccontano come la popolazione, dopo le invasioni di Vandali e Bizantini, abbia goduto di un lungo periodo di auto determinazione, durante il periodo dei giudicati. Cinque secoli di governo autonomo. Raccontano di un popolo fiero e orgoglioso, che mai ha sopportato di buon grado i vari dominatori nelle proprie terre. E spesso, molto spesso, si è rivoltato ad essi. E raccontano la piaga della malaria e del feudalesimo, entrambe ancora in auge, nonostante vari tentativi di distruggerle. Sanno che per quasi quattro secoli, quelli successivi al periodo dei giudicati, la popolazione ha dovuto subire il dominio di un impero, che dicono così vasto, che il sole non tramontava mai nei suoi territori. E raccontano le lotte per affrancarsi dal dominio degli Spagnoli, e sono bene informati sui nomi dei protagonisti che si sono battuti, affinché il popolo Sardo godesse di maggiori autonomie dall’impero iberico; raccontano trame e intrighi di palazzo e di elite, trasferiscono alla gente, con dovizia di particolari, le storie delle famiglie più potenti dell’isola, legate sia al popolo, che agli invasori: le famiglie di castelsardo, di laconi e di villasor, e tante altre, che hanno fatto la storia di queste terre dimenticate, insieme ai vari rappresentanti dell’impero spagnolo. Tutta gente che, pur discendendo da antiche dinastie iberiche, si sono innamorati così tanto dell’ambiente che li circondava, da considerarsi più Sardi che Spagnoli. E i cantadores conoscono alla perfezione, e ne narrano le gesta, le figure di quei personaggi che hanno lottato per affrancare l’isola dai vari dominatori, e di come, in qualche modo, allora, come adesso, esistesse una sorta di parlamento riconosciuto anche dai dominatori, che rappresentava però, più che le istanze della gente, i desideri dei proprietari terrieri. Una figura sempre presente, in quei racconti, è proprio la povera gente, rappresentata, però, mai come singole persone, ma in maniera collettiva. Gente, entrata nella storia solo in occasione di rivolte, ma le rivolte non erano un fatto occasionale, ma la norma. E le sublevacion, come dicono gli Spagnoli, limitarono di molto il loro potere, per tre anni ancora una volta la sardegna poté governarsi da sola. Per tre anni si era affrancata dal regno più potente del mondo allora conosciuto. E quando la rivolta fu sedata, la mano dei potenti si fece sentire in maniera pesante: furono torturati e sequestrati i beni ai capi delle rivolte, e veniva riservato a chi vi aveva partecipato, l’uso dei capestri e della mannaia. Ma una cosa è certa, quattro secoli di dominazione spagnola, qualche scoria deve aver pur lasciato tra la gente, accompagnata anche da qualche nota positiva. Certo è però, che il potere dominante, pensa soprattutto a se stesso, e concede agevolazioni solo se non intacca i propri privilegi; piuttosto, se qualche occasionale concessione doveva essere fatta, andava a beneficio dei feudatari, e mai alla gente. E la storia non cambiò nemmeno quando gli Spagnoli furono sostituiti per nove anni dagli Austriaci, e nemmeno nei tempi attuali, sotto il dominio Piemontese. La fantasia che il potere mette in campo, è sempre e dappertutto carente, e la gente non trova differenze tra una dominazione e l’altra, e quando devono raccontare periodi in cui due poteri si scontrano, i cantadores riportano una quartina in lingua gallurese, che può essere tradotta nel seguente modo: 



per noi non cambia nulla, non importa chi abbia vinto, sia esso Filippo quinto, o Carlo imperatore.

E se sui palchi si danno battaglia verbale, a volte terminano all’unisono la cantada, con la canzone dei Sardi:


procurade e moderare, barones, sa tirannia, chi si no, pro vida mia, torrades a peis in terra, declarada è giai sa gherra, contras de sa prepotentzia, e incommintzada sa passientzia, in su populu a mancare. 

La pazienza, per un popolo fiero e orgoglioso, non può essere messa alla prova impunemente. Le cantadas sono l’unico mezzo per far conoscere avvenimenti e tendenze, di immaginare come potrebbe essere la vita nel resto del continente europeo. O come avrebbe potuta svilupparsi, in un lontano futuro, nell’isola. E pian piano la gente immaginava che potrebbe esistere un nuovo ordine di cose, una nuova opportunità di riscatto. Eppure fino ad allora, nessuno aveva mai potuto immaginare una diversa conformazione di società, la gente si sentiva inferiore ai ricchi, e non passava loro per la mente, che avrebbero potuto recriminare nuovi diritti. È come se poveri e ricchi appartenessero a due specie distinte, che mai si sarebbero potute mischiare tra loro. Semmai i Piemontesi, con leggi e disposizioni, aumentavano a dismisura i privilegi di pochi, e i disagi di tutti gli altri. Si diffondeva, tra la gente, la certezza che essi fossero i peggiori dominatori, tra tutti quelli che si sono succeduti nell'isola. La configurazione reale, decretava che la società di allora, era ancora dichiaratamente feudale; forse la sardegna, era in quegli anni, l’ultima terra che stava faticosamente abbandonando quel sistema iniquo di società. E i nuovi dominatori consideravano ancora l’isola come una loro colonia, sotto tutti i punti di vista, nonostante che la nuova nazione che si era formata, comprendente la sardegna e parte della penisola, portasse il nome di regno sardo. Un gettare fumo negli occhi della gente, per poter approfittare di condizioni favorevoli. Le imposizioni che i Piemontesi effettuarono per decenni, impoverirono di molto l’isola, e la loro dominazione era considerata ancora più oppressiva di quella spagnola. Un impoverire una terra e un popolo che non veniva messo nelle condizioni di giovare di nessuna nuova iniziativa, e le disposizioni che i Piemontesi imponevano, erano sempre peggiorative per la povera gente, mai la concessione di un vantaggio, usavano sempre maggiore forza per affossare legittimi diritti, meglio sarebbe stato che le cose fossero restate nella pur colpevole stagnazione precedente. E navi piemontesi e veneziane facevano rotta verso il continente, cariche di pregiato legname, di animali e di formaggi. Alla gente, di tutto questo commercio, non restava niente, le navi partivano cariche, e tornavano vuote, solo che durante le ricorrenti rivolte della gente, a volte rientravano cariche di soldati.

Itta vida trista depeus biviri, nos si fainti purdiai, depeus castiai is sordaus in is caminus, mali portaus po mori de is leis noas chi anti fattu, e po donniuna depeus biri chi fai rivolutzioni o non, non si lassanta bivi in paxi, cumenti iausu a boliri, sempri peus, sempri peus, su crasi peus de ariseu, nos sindi leanta pani e abba.

La paura di vedere sulle strade affissi dei fogli, nuove leggi e disposizioni, mai migliorative, e decidere ogni volta se ribellarsi ai soprusi, un passare per un popolo rissoso, un popolo che non accetta imposizioni troppo pesanti, sempre e solo rivolti a quella misera parte di popolazione, che risponde al nome di infimi contadini, o di pastori straccioni, male odoranti, servi che non hanno nemmeno acqua per i più elementari bisogni. Un colpevole impoverire un popolo, e tenerlo ancorato al passato, per costruire principalmente il benessere di chi non ha mai lavorato, soprattutto nella penisola. Di qualsiasi avvenimento deciso dai potenti, l’isola più povera non approfittava mai. Anzi, veniva continuamente penalizzata, e se nuove disposizioni dall’alto venivano date, non erano certo a vantaggio dei poveri, ma dei ricchi locali, o di popoli estranei. I Piemontesi, a quel punto, erano invisi alla gente, molto più osteggiati di quanto lo fossero gli Spagnoli, erano considerati solo sfruttatori di beni altrui, venuti per distruggere, e non per far avanzare la società. E le rivolte erano frequenti, il Sardo era visto come un rivoltoso, uno sporco, barbaro, e misero popolo, quando anche non veniva considerato un bandito, infatti, rapine e abigeati erano la norma.

Pastoris attesu de sa terra insoru, genti pobora portada a sa rivoluzioni, a sbandiai a biviri chena una omu, e po bovida su cielu spartu, murus chi paranta su entu, ma non s’abba. Custrintus a fairi biviri finzas sa familia, chenza bonu spettu.

Vivere e lavorare in condizioni disagiate, per giunta obbligando i figli piccoli a sacrifici più grandi delle loro misere forze, a volte colpiti dalla malaria, e qui in campidano sembra che le zanzare siano ancora più numerose, e la paura della febbre diventa ancora più forte, in una zona dove non possono contare sulla solidarietà dei loro amici e dei parenti, abbandonati alle intemperie e al destino, in una terra che non è la loro terra.

Alla fine dell’inverno, i quattro Ogliastrini, rientrano al paese natale, una nuova vita di noia attende Gavino e Antoneddu, altri otto mesi a fare le stesse azioni, con una ripetitività esasperante. Sempre in piedi di buon’ora, una affrettata colazione a base di latte e formaggio, poi la mungitura delle pecore, e la noia mortale in attesa di mangiare qualcosa in comune, per pranzo. Un trascorrere le mattinate sempre allo stesso modo; Gavino, che si perfeziona col flauto di canna, su sulittu, e Antoneddu, nella vallata di fronte, a sentire la solita melodia. E Gavino sempre intento a costruirsi nuovi flauti, e tentare l’impresa di realizzare le tipiche launeddas, una sorta di triplice flauto, dai suoni particolarissimi, e dalla costruzione molto più problematica. Trascorrere entrambi il tempo, a guardare verso il mare, o verso il cielo, alla ricerca di qualche aquila reale, felice di librarsi in cielo, a differenza dei due ragazzi, costretti ad una vita troppo ripetitiva e condizionata da un infimo livello. O cercare di acchiappare, aiutati dai cani, imprendibili lepri, abbondanti di numero, ma sfuggenti. O immaginare di possedere le capacità di catturare cervi o mufloni, ancora più sfuggenti e sospettosi delle lepri. Un essere schiavi di un sistema economico che non lascia libertà di azione, sempre in emergenza, costretti entrambi quasi a considerarsi parte del gregge, e non esseri umani. Ciò dà fastidio soprattutto a Gavino, che possiede uno spirito libero e, volendo esagerare, artistico. Infatti la noia che prova a contatto con le pecore, gli pesa infinitamente, mentre il suo coetaneo, sembrerebbe che se ne sia fatta una ragione. Gavino non sa come trascorrere il tempo, ha un carattere esuberante, gli pesa stare in ozio, e quando trova qualche arbusto che lo ispira, interviene con il suo coltellaccio, s’arresoja che gli è stata regalata dal nonno, meno di un anno fa, per pasqua. L’oggetto più prezioso che possiede. Ne ricava delle figure che richiamano esseri umani, o animali, molto stilizzate e fantasiose in maniera inusuale, dato che sono state realizzate in piena libertà di pensiero e di immaginazione. E se trova una pietra che abbia una conformazione già ben definita, dalla forma che lo ispira, non disdegna di effettuare la stessa operazione su di essa, aiutandosi con attrezzi presenti nello stazzu. Questo, composto da grosse pietre che richiamano, nella loro disposizione, un non so che di nuragico, ma con il soffitto ricoperto di canne sapientemente disposte dai genitori dei ragazzi, e dalle quali non filtra una goccia d’acqua in caso di pioggia, è pian piano circondato dalle figure realizzate da Gavino, come guerrieri e animali inanimati, disposti a protezione del rifugio. Quando il sole raggiunge la sua massima altezza, i due ragazzi accompagnano le greggi nei loro recinti a fianco della rudimentale costruzione, e mangiano qualcosa. Sempre gli stessi alimenti, però. La dieta pastorale, se pure gustosa e abbondante, non è molto varia. Carne, formaggio, e qualche pezzo di pane carasau, il classico pane della civiltà dei pastori, sottile e duro, adatto ad essere conservato per mesi interi. Una dieta intervallata, a volte, da un piatto tipicamente estivo, che accompagna quella tipologia di pane, ammorbidito da qualche succoso pomodoro. A volte i genitori dei due ragazzi portano loro degli insaccati sotto sale. Ma la dieta si esaurisce con quei pochi elementi. Non manca mai la frutta, fichi d'india e pere. E anche nei periodi che i due ragazzi trascorrono a casa, la dieta non varia di molto, solo possono gustare la domenica, qualche gallina e il relativo brodo, e gli ortaggi coltivati dai genitori, in piccoli appezzamenti strappati faticosamente alle rocce, poco lontani da casa. Tutto qui; non cambia molto la qualità della loro vita, ed è quasi ininfluente, sotto quel punto di vista, lo stare a casa, piuttosto che abbandonati per settimane tra i monti. Uno scambiarsi i ruoli tra i due ragazzi e i due genitori. Gavino però è contento quando sta a casa, soprattutto per un motivo: gli piace scambiare impressioni con una persona che lui ammira in modo particolare, suo nonno Isidoro. Quello che gli ha donato s’arresoja. Non avendo il ragazzo grandi contatti col padre, dato che uno dei due deve forzatamente accudire le greggi, nonno Isidoro è il suo maestro di vita, quello che gode ancora di grande prestigio in famiglia, perché la civiltà pastorale non dimentica chi ha trascorso una vita intera mirando al bene dei suoi discendenti, cercando di costruire opportunità per se stesso, e per figli e nipoti. Esattamente come fece suo padre, e suo nonno. La direzione formale delle decisioni importanti, è di sua competenza, è sempre di competenza del più anziano, e certo viene assecondato alla lettera, riconoscendogli grande saggezza. Ma l’effettivo indirizzo familiare, in una società marcatamente matriarcale, è appannaggio della padrona di casa, Anna. Ciò fa parte dell’ordine naturale e tradizionale delle cose, essendo i maschi, già dall’età di sette anni, impegnati a custodire le greggi, e quindi sempre e solo lontani da casa, senza contare che durante l’inverno, dopo la transumanza verso le pianure, restano quattro mesi senza vedere la famiglia. Un dover considerare che la loro famiglia è forse più il gregge, che i propri cari. E se è lei che effettivamente traccia l’indirizzo della famiglia, a volte deve sottostare al volere del suocero, quando questi insiste su certe decisioni. Nessuno si sognerebbe mai di contraddire il vecchio, specialmente in questo periodo, avendo dovuto subire la perdita di sua madre, che li ha lasciati all’improvviso, senza alcuna avvisaglia, in quanto ha sempre goduto di ottima salute, nonostante avesse superato abbondantemente il secolo di vita. Non si conosceva esattamente la sua data di nascita, qualcuno racconta che fosse nata a ridosso della festa della pasqua, di centoquattro anni fa. Nonno Isidoro ha una particolare predilezione per Gavino, ne apprezza lo spirito libero, la sua fantasia artistica esplosiva, la sua manualità fuori dal comune, e l’innata intelligenza che dimostra di possedere. Gavino conosce alla perfezione l’evolversi della lunga e travagliata esistenza del nonno, il suo modo di ragionare, e da lui ha assorbito i cardini su cui si basa la mentalità del popolo Sardo. Con tutti i suoi pregi, e con tutti i suoi difetti. Prima di tutto, ha imparato che la dote di una persona che si possa definire uomo, è la lealtà, il non venire meno, qualsiasi cosa succeda, alla parola data, anche in relazione a fatti insignificanti. Gavino ha assorbito dal progenitore tutti i canoni condivisi che decretano se una persona sia un vero uomo, o no. Se sia balente. Ecco la parola che riassume il concetto di vita di nonno Isidoro, una parola che raccomanda di essere intelligentemente orgoglioso, ben sapendo che i mali che affliggono la nostra isola, spesso derivano da un concetto applicato in maniera troppo rigida di quel termine. Orgoglio non vuol dire asserragliarsi nella propria personalità, se pure la maggior parte della vita verrà trascorsa in solitaria e faticosa esistenza, vuol dire che le poche volte che si viene a contatto con la gente, bisognerà dare e ricevere, ma mai farsi condizionare. E balentìa vuol dire non sottostare a nessun tipo di ricatto, sia esso fisico o psicologico, vuol dire rendere due a chi ti ha dato uno, nel bene e nel male. Balentìa vuol dire che non bisogna mai perdere la propria dignità, lottare per quello in cui si crede, costi quel che costi, stavolta senza intelligenza, a testa bassa, occhi chiusi, e la mano serrata forte su se stessa. Balentìa vuol dire non rinunciare mai ad essere veri uomini, combattere i soprusi ingiusti, ossequiare leggi solo se effettivamente giuste. Sembra che non basti il tempo a nonno Isidoro per sfruttare ogni attimo in cui gli è concesso stare col nipote, e le loro chiacchierate si svolgono nei luoghi classici della tradizione orale sarda. Mai durante un impegno, un lavoro, mai durante i pasti, mai se in presenza di altri, sempre in un ambito ricavato solo per quella evenienza, come per dare più risalto agli insegnamenti. Di fronte allo scoppiettare di un allegro fuoco, in inverno, seduti fianco a fianco, come per rinsaldare un senso comune di appartenenza, o seduti a ridosso dell’uscio della casa, sulla strada, a godere di un po’ di aria libera, nelle calde notti estive. I due si sentono reciprocamente legati, il senso di appartenenza alla famiglia e alla parentela più stretta, in sardegna ha grande rilevanza. Pregi e difetti della cultura sarda, nel bene e nel male, l’aiutarsi vicendevolmente tra parenti, o partecipare ad assurde faide che contrappongono famiglie rivali, non sapendo entrambe nemmeno da cosa effettivamente sia derivata tanta ostilità, un raccontare avvenimenti, successi secoli prima, e la cui genesi ha due diverse valutazioni, a seconda dell’appartenenza ad una, o all’altra famiglia. Un esercizio di trasposizione di date antiche, un non sapere bene se un omicidio abbia preceduto o meno, un affronto. Morte chiama morte, in sardegna, e si deve agire solo in progressione, rincarando ogni volta le dosi. E Gavino, pure in possesso di una coscienza critica autonoma, assorbe ogni affermazione del patriarca senza fare resistenza. Conosce la figura arcaica del sardus pater, raccontata dai cantadores, e descritta con dovizia di particolari, spesso frutto della loro fantasia; ne descrivono la grande influenza, riconosciuta da tutto il popolo nuragico, una figura descritta come nobile e autorevole, a fianco e in ammirazione della altrettanto conosciuta figura della dea madre. Ma per il ragazzo esiste un solo sardus pater, certo molto più plebeo: nonno Isidoro. Lui in genere mette in dubbio tutto, gli piace verificare fatti e atteggiamenti, ma subisce passivamente tutti gli indirizzi che Isidoro gli impone. Nonostante sia dotato di una rilevante personalità, la sua si potrebbe definire volontariamente succube di quella del progenitore. E ciò non è dettato solo da impressioni, o dal fatto che subisce supinamente il carisma del nonno, ma da fatti concreti. Il modo in cui il vecchio ha condotto la sua esistenza, e cioè con grande dignità, è un esempio per lui. E quando ha dovuto decidere se in qualche problematica situazione fosse più giusto usare il coraggio o l’intelligenza, lui ha sempre preso le giuste decisioni, tenendole entrambe ben presenti. È risaputo in paese, che già da giovane, era dotato di grande saggezza. Ma la saggezza, in ambiente pastorale, è appannaggio solo delle persone anziane, però lui gestì per il meglio una intricata situazione, con intelligenza e coraggio, due doti che non sempre sono presenti contemporaneamente nella personalità della gente. Il coraggio a volte passa per obbligo di affrontare chi ci contrasta, a testa bassa, e, spinti da un irrazionale senso di odio, ad occhi chiusi, e col cervello che si rifiuta di ragionare, e valutare le ragioni altrui. Passa per la certezza che, una volta presa la decisione che potrebbe causare catastrofi, tutto deve essere compiuto con la massima decisione, costi quel che costi. Passa per il bisogno di affermare tra la gente, la propria personalità fisica, disinteressandosi di quella morale. Passa per la consapevolezza di poter uccidere, quando in presenza di un affronto. Era stato accusato di furto di bestiame, una ventina di pecore, ai danni dell’antico padrone della vallata dove trascorrono la loro vita Gavino e Antoneddu, con l’aggravante che una delle pecore, la più riconoscibile, era stata introdotta nel suo gregge, per evidenziare il fatto che era stato proprio lui l’autore dell’abigeato. Lui la riconobbe immediatamente come non appartenere al suo gregge, e sparse la voce nel paese del fatto avvenuto, e in cuor suo immaginava anche chi fosse l’autore del gesto ignobile. Qualcuno aveva già informato il proprietario delle pecore rubate, che avrebbe potuto trovare le prove del furto in mezzo al gregge di Isidoro. La famiglia e i parenti di chi aveva subito il furto, si riunirono, e, senza accertare come si fossero effettivamente svolti i fatti, circondarono e malmenarono pesantemente Isidoro, che uscì dall’aggressione in maniera malconcia. Alla fine della lezione, fecero un improvvisato processo a suo carico, portando come prova inconfutabile la pecora in questione, che però Isidoro aveva tenuta separata dal suo gregge, in attesa di scoprire chi fosse l’effettivo proprietario. E questo comportamento, avallato dal fatto che avevano trovato una sola pecora nel suo gregge, e successive testimonianze, di gente che aveva sentito l’uomo chiedere in giro chi fosse il padrone della pecora così misteriosamente introdotta nel suo gregge, lo scagionarono da tutte le accuse. Gli autori dell’aggressione dovettero implorare il perdono di Isidoro, un altro al suo posto, secondo le usanze locali, avrebbe dovuto lavare l’onta subita con un’azione ancora più cruenta. Ma lui non lo fece, e accettò le scuse. Qualcuno in giro per il paese già mormorava che era un vile, che gli affronti devono essere ricambiati con gli interessi, e per qualche giorno la sua reputazione subì un drastico calo verso il basso. La gente, in quei giorni, lo evitava, per non essere costretta a rispondere al suo saluto. In ogliastra, e nel mondo pastorale isolano in generale, non reagire è segno di essere pavidi, ma l’uomo non doveva dimostrare a nessuno il suo coraggio, e prese la situazione come un vantaggio, perché scoprì chi veramente gli era amico, e chi no. Dimostrò a se stesso che era in possesso del carattere giusto, scegliendo di non prendere decisioni avventate, e dimostrò, oltre che intelligenza, anche il coraggio che si evidenzia quando si seguono strade contrarie alle consuetudini. Il coraggio non è solo un fatto fisico, il mettere a rischio la propria incolumità, no, per Isidoro il coraggio è soprattutto una condizione mentale, andare contro le usanze, se non giudicate corrette, nell’unica prospettiva favorevole al genere umano: quella di andare avanti, sempre e comunque, evolversi nello spirito di considerarsi sempre più liberi. Il coraggio è valutare correttamente situazioni che avrebbero potuto portare all’ennesima faida familiare. Ma non reagire era ed è considerato un atteggiamento ben peggiore dello stesso furto. Ma lui faceva lavorare il tempo a suo vantaggio, e forte anche delle informazioni di chi aveva dimostrato di essergli amico, riuscì a scoprire chi effettivamente aveva compiuto il furto. Lui aveva  capito già da subito chi fosse l’autore dell’abigeato, ma non aveva prove per dimostrarlo, e si comportò anche in quel caso in maniera dissimile dalle consuetudini. Un altro avrebbe punito il probabile indiziato, anche se in mancanza di prove esaustive. Ormai aveva stabilito come comportarsi, e lo tenne sotto controllo per svariati giorni, e alla fine decise di tendergli una trappola. Isidoro pascolava le pecore a ridosso del confine del suo paese, e aveva già da tempo fatto amicizia con un allevatore del paese confinante, e si accordò con lui chiedendogli di spargere la voce che era alla ricerca di una cinquantina di pecore, e che era disposto a pagarle ad un prezzo sensibilmente superiore al loro effettivo valore. Gli amici di Isidoro fecero il possibile perché la notizia giungesse alle orecchie del presunto ladro, ormai erano trascorsi una decina di giorni, e lui si sentiva sicuro del fatto che ormai l’aveva fatta franca, e stabilì un incontro col compratore. Il giorno dopo, scattò la trappola, gestita dalla famiglia che aveva subito il furto, le pecore rubate erano lì, in aperta campagna, come prova a disposizione, pronte per essere vendute; fu circondato e lasciato per terra, fino a quando dimostrò di non reagire quasi più ai colpi. Lo avevano massacrato, ma gli avevano risparmiato la vita. Isidoro aveva da subito sospettato di lui, perché entrambi si erano invaghiti della stessa donna, e in paese non aveva né nemici, né altri rivali, non poteva essere che lui. Gli dava fastidio però il fatto che aveva subito un’azione spregevole, non meritata, e infamante. Il codice etico e comportamentale che regna nell’isola, in ambiente pastorale, è chiaro a tutti, e un furto non deve essere messo in atto se mette in estrema difficoltà economica una famiglia che non merita di essere penalizzata, e venti pecore hanno grande rilevanza nell’economia familiare. E lui, il ladro, oltre che appropriarsi delle pecore, metteva in difficoltà anche Isidoro. Altra cosa è il furto di una pecora, o di qualche agnello, specie se destinato ad essere sacrificato per un’allegra cena tra amici, non si tiene gran conto di questo, e quasi non viene considerato un furto. È estremamente difficile che una cena tra amici sia a base di carne derivata dalle greggi di qualcuno di loro; come per dimostrare coraggio, in genere, il povero animale, deve essere rubato. Ci sarà tempo per il legittimo proprietario, di ricambiare il favore, e spesso, ma dopo molto tempo, viene messo a conoscenza dell’identità dei ladri, a volte da loro stessi. E questo non porta mai a contrasti, solo a qualche bonaria discussione, che in genere termina davanti ad un rilevante numero di bicchieri, riempiti del classico distillato sardo, su filu e ferru. L’intelligenza che Isidoro aveva dimostrato in quell’occasione, gli assicurarono il rispetto dei suoi compaesani, e le attenzioni della donna contesa, che qualche anno dopo diventò sua moglie.

Arega bella, Arega sposa, femina mia, dea mamma plebea, reina in domu mea, sa mamma de is figlius chi su Signori nos ada a boliri donai, arrispettu e onori po tui, e siada su chi ada essiri.

Rispetto e onore per te, sposa mia, e sia quel che sarà.

Durante la festa più importante del paese, e nella piazza illuminata, danza il classico ballo sardo, la quasi totalità dei giovani del paese. Anche Antoneddu e Gavino sono presenti, hanno qualche anno in più, e cominciano ad interessarsi delle loro coetanee femmine. E al suono delle launeddas, il classico strumento sardo a tre canne, particolarissimo, e di un certo numero di altri strumenti musicali, per lo più a fiato, ricavati dalle comunissime canne, e un ritmo di piatti e tamburi, trascorrono gran parte della serata. Ma l’avvenimento che coinvolge di più, si svolge alla fine della festa. E, stranamente a dirsi, in una società rude come quella ogliastrina, l’avvenimento più seguito è una rassegna poetica. È la massima espressione della circolazione delle idee e delle informazioni, a disposizione della gente. Sa cantada, in cui si danno battaglia, per fortuna solo verbale, e in versi, i più rinomati poeti Sardi. A loro preme esprimere concetti, e spaziano nella storia, nella geografia, e nell’animo umano, con una facilità disarmante. E spesso anche nella filosofia spicciola. E spaziano tra le consuetudini, e ne discutono, e in qualche modo riescono a variare la sensibilità della gente, che si scorda temporaneamente di concetti acquisiti. Hanno grande rilevanza e popolarità, e i più conosciuti sono ambiti dagli organizzatori delle varie sagre paesane. Quando viene citato un cognome, che non ha nessuna attinenza con il discorso in atto, è certo che la discussione in esame si riferisce alla cantada precedente, o ad uno dei poeti conosciuti in passato. Gente che ha grande rilevanza tra la plebe, ma sconosciuta ai principali protagonisti che tengono in piedi il sistema feudale, e che immaginano che dalla diffusione di quelle idee, dipenderanno i loro maggiori guai futuri. È l’unico modo di trasferire cultura alla povera gente. L’unico modo per far capire che, a volte, la gente si potrebbe ribellare. E infatti, i colti, i ricchi, e i potenti, spesso si fanno beffe di loro, e giudicano le cantadas, una forma arcaica di trasmissione di idee, loro hanno a disposizione ben altro, scuole elitarie gestite per lo più dal clero, sempre con la puzza sotto il naso, e le tasche piene di soldi, e di boria. Ma la gente sa che, se venissero in contrasto dialettico con loro, con l’obbligo di trasferire pensieri in rima, i colti farebbero una meschina figura. È giusto immaginare di prendersi almeno quella soddisfazione, dato che la gente risulta perdente in ogni altro campo. E quest’anno si è deciso che il tema delle cantadas, dovrà essere la libertà. E si viene a sapere che è stato appena consegnato alla storia, in francia, un avvenimento nemmeno lontanamente ipotizzabile: la gente aveva spodestato i sovrani, e preso decisamente il potere. Ma qui non siamo in francia, e la mano del potere Piemontese, preme forte sulla gente. Ma un germe, un piccolissimo germe, forse, quel giorno, ha fatto breccia nella sensibilità della gente, e se un simile avvenimento è avvenuto in francia, perché non coltivare l’illusione che potrebbe verificarsi anche qui? Certo è, però, che non è sufficiente una cantada per far scoppiare tumulti, tra la popolazione e il potere, o i feudatari, o i ricchi. Un popolo che è definito dai vari poteri che si sono succeduti, rissoso e incontentabile, ma qui non si parla di sommovimenti estemporanei e casuali, qui si parla di creare una vera e propria comune veduta di interessi, di tutto un popolo offeso, c’è da definire una comune strategia, dato che bisognerà programmare una rivolta, indispensabile perché non esiste alcun altro mezzo per acquisire diritti. Ha assistito alla cantada, anche nonno Isidoro, e il giorno dopo, è una continua discussione con suo nipote, riguardo ai temi trattati dai poeti, che avevano così smosso la naturale ritrosia della gente ad occuparsi di temi politici e sociali.

Su poboritu de sa genti comuna, cun furconis e nuus de furca, adi mortu su rei mannu, ma Deus es testimongiu, e ada a torrai a postu is cosas, e mala meda ada essiri sa reversa de chi ada perdiri.

Si scomoda persino Dio, per evitare che la gente prenda il potere, i ricchi e i potenti hanno paura della plebe inferocita, e non vogliono che si organizzi, hanno paura che le idee rivoluzionarie francesi facciano presa anche sui Sardi. Qui non si tratta di una rivolta casuale, ma di una vera e propria strategia comune, per affrancare tutto un popolo dal giogo del feudalesimo. Hanno più paura di una idea, che di qualche zoticone disposto a morire, piuttosto che soccombere a regole ingiuste. E la gente, pur sotto il giogo piemontese, preferisce contrastare soprattutto il sistema feudale, molto più ambiguo e penalizzante del potere politico. E i Piemontesi, una volta capito che la gente non mira a liberarsi dalla loro presenza, ma è contro il feudalesimo, contro i baroni, si sente più tranquillo; ma è talmente colluso con essi, che per forza di cose, deve suo malgrado decidere da che parte stare. E come al solito, fa la scelta sbagliata.

La vita di Gavino e Antoneddu, scorre sempre con lo stesso, lentissimo ritmo, sempre alle prese col problema di come fare a far passare il tempo. Sono dei giovanotti ormai, e il tempo trascorso nella vallata, ora, pesa a entrambi, ancora più che in passato, e aspettano con ansia il momento in cui i genitori daranno loro il cambio, e potranno godere di qualche giorno libero, da dedicare alle ragazze del paese. Hanno stabilito, con i genitori, come da usanza, che quando un ragazzo ha collaborato al benessere della famiglia, per molti anni, abbia il diritto di cominciare a programmare la sua vita futura, e un piccolo stuolo degli animali dei genitori, diventano di loro proprietà. Poca cosa, comunque, ma se si decide di non guadagnare subito, in pochi anni diventeranno anche loro proprietari di un gregge sempre più consistente. E loro aspettano volentieri; nonostante la loro giovane età, hanno capito perfettamente i meccanismi che regolano la società in cui vivono. Un diventare uomini prematuramente. Naturalmente, dato il fatto che le singole pecore di loro proprietà, per un pastore, sono riconoscibili, e le greggi non verranno separate, è una questione di praticità. Basteranno due colori diversi e indelebili per certificarne la proprietà. La loro sete di avventura, quando sono liberi da impegni, li spinge ad affrontare lunghe camminate verso i paesi circostanti, specie durante le sagre paesane, e conoscere realtà nuove, che però, non si discostano affatto dallo stile di vita del loro paese. Il mondo che conoscono, sembra che non offra loro novità sostanziali, eppure sanno che mondi completamente diversi esistono, persino in sardegna. E un giorno, avendo ricevuto dai genitori la notizia che avrebbero potuto godere di qualche giorno di libertà, decidono di dar sfogo alla loro fantasia, e alla voglia di avventura, e conoscere la città sarda più importante, casteddu. C’è però un problema da risolvere. Ogni allevatore non è mai completamente libero, e deve almeno collaborare al lavoro più importante, in termini di reddito, della loro professione: mungere quotidianamente gli animali. Si mettono d’accordo con due amici, avrebbero aiutato loro i genitori, e in cambio avrebbero restituito il favore in altre occasioni. La mentalità contadina, e pastorale in particolare, può avere tanti difetti, ma non esiste il problema che quando una persona abbia bisogno di aiuto, venga abbandonata a se stessa, e il concetto di amicizia sconfina spesso nel bisogno di essere utili, specie in un ambiente dove chiedere è un fatto occasionale, e così i due amici accettano di buon grado. Si preferisce avere dei crediti morali, o reali, piuttosto che essere obbligati a pensare continuamente a come sdebitarsi. E non esiste il fatto che quando si da, lo si faccia in maniera gratuita, perché chi riceve il favore, cerca di estinguere il proprio debito in maniera tempestiva. Approfittano del fatto che un loro compaesano, avrebbe dovuto compiere il lungo viaggio verso casteddu, con un carro trainato da due cavalli. Trasporta un carico di legname, che servirà per costruire i mobili di una donna che avrebbe dovuto sposarsi a breve. Il tragitto, iniziato ben prima dell’alba, non presenta particolari difficoltà, e l’incedere dei cavalli, lento ma costante, li avvicina sempre più alla meta. Non si fermano nemmeno all’ora di pranzo, tutti e tre hanno fretta di arrivare, i due ragazzi per la smania di conoscere una nuova realtà, e il trasportatore, per incassare la sua paga. In una società dove la circolazione di moneta è pratica irrisoria, e poco diffusa, avere tra le mani un gruzzoletto di soldi ha un grande valore, la società pastorale e contadina gode di tutti i beni essenziali per la sopravvivenza, e nessuno muore di fame, ma possedere un po’ di soldi, così rari tra la povera gente, rende la sua professione interessante, almeno sotto quel punto di vista. Quando il sole raggiunge la sua massima altezza, i due ragazzi mettono mano alle loro bertulas, che sono in pratica delle bisacce a doppio scomparto, nei quali viene sistemato il cibo per molti giorni. Acqua, vino, pane secco, formaggio e salsiccia. Non manca nemmeno il classico filu e ferru, o un litro di ottimo mirto artigianale, contenuto nella tradizionale cubedda, contenitore ricavato da una zucca essiccata, e privata dei suoi semi. E mangiano scomodamente sul carro, per non perdere tempo prezioso. Si fermano solo per abbeverare i cavalli e distribuire loro un po' di fieno. La prima parte del tragitto non è molto interessante, i paesaggi sono simili a quelli del loro paese, ma gradatamente, avvicinandosi verso il mare, i monti ricoperti da foreste, lasciano il posto a collinette sempre più piccole, ricoperte dalla macchia mediterranea. Attraversano una zona completamente coltivata a vigna, in mezzo alla quale, ordinatamente, sono stati piantati degli ulivi. E arrivano a casteddu in tarda serata. Le strade larghe, i grandi palazzi, sono per i due ragazzi una vista inaspettata, si chiedono come la gente, là, possa vivere, dato che non vedono né greggi, né altri tipi di produzione rurale, e quasi tutti sono vestiti con abiti non definibili da lavoro. I commercianti sono la maggioranza, e i loro negozi sono ben forniti di ogni ben di Dio, e le osterie sono piene di gente. Vedono gente vestita in maniera non raffinata, solo a ridosso del porto, e uno stuolo di ragazzini che portano in testa delle grandi corbulas, contenitori circolari di paglia lavorata, che trasportano merci dappertutto, un vespaio di bambini e ragazzi, che assicura la circolazione dei beni all’interno della città. Trascorrono parte della notte gironzolando dappertutto, trovano la parte a ridosso del porto molto interessante, per via dei grandi e artistici palazzi, per i velieri ancorati in porto, e per il senso di dinamicità che salta agli occhi in maniera prepotente; piace anche la parte alta della città, meno raffinata, ma suggestiva. Stride però la pomposa fattura dei palazzi del potere e del clero, con la misera rappresentazione delle case circostanti, scarne ed essenziali, mal costruite e fatiscenti; anche qui la differenza tra i potenti e la plebe, salta agli occhi in maniera troppo evidente. Da lì possono godere di viste spettacolari, la città appare loro come molto più estesa di come avrebbero immaginato, la vista del porto, con i suoi velieri, risulta affascinante, come pure il brulichio di gente intenta a scaricare merci e pesci, e l’ampia curva del golfo del poetto, mette in contrasto la sabbia bianchissima con il colore smeraldo del mare. In lontananza vedono una grande macchia rosa, spettacolare e in movimento, più tardi sapranno che sono dei volatili, a loro sconosciuti: fenicotteri. E a due passi da loro, ci sono le grandi costruzioni del potere, belle a vedersi, imponenti, e ornate da inutili aggiunte. Trascorrono quello che resta della notte, in un luogo alberato, che definire parco sarebbe eccessivo. La mattina dopo, riprendono le loro escursioni cittadine, vedono un grande ospedale, dei grandi spazi aperti dove si svolgono le esercitazioni dei militari, capiscono che la maggior parte di quei contingenti è di origine Sarda, ma chi comanda è Piemontese, e i ragazzini con in testa le loro corbulas sono dappertutto. Discendendo dalla parte alta della città, abitata soprattutto da militari e funzionari del regno, dopo aver visto dall’esterno il palazzo del potere, dove abita il viceré, si dirigono verso la zona del porto. Vedono sfilare un drappello di soldati in alta uniforme, decidono di seguirli. La loro disposizione, fino ad allora ordinata, ad un certo punto diviene confusionaria, e si sparpagliano intorno ad una casa, la circondano e fanno irruzione; ne escono con due prigionieri. Sono due avvocati molto conosciuti e benvoluti in città; vengono arrestati con l’accusa di essere dei pericolosi rivoluzionari, e portati nella parte alta della città. La notizia si sparge in breve tempo, e la gente si organizza, per una volta non sono disposti a subire le prepotenze dei dominatori, e decidono di liberare i due. È da poco tornata da torino una delegazione di Sardi, che ha chiesto udienza al re, ha dovuto aspettare mesi per parlare con lui, esponendogli molte rivendicazioni a favore del loro popolo. Missione fallita miseramente, oltre ai dinieghi del re, hanno dovuto subire gli sberleffi dei cortigiani Piemontesi. 

Itta olidi custa genti, chi esti mala comente bandius, chi sindi andidi, a leai barritas e orbace, chi torridi in sa terra meschina cosa sua, su poboritu isolanu, cun is berbeis e in mesu a su sinsulu, in sa miseria sua, nosu non teneus nudda de dividiri cun issus, populu minore. 

La traduzione in sardo, dall’italiano, esaspera gli animi, la gente è stata informata di come i loro rappresentanti sono stati trattati, e del fatto che i nuovi invasori considerano la sardegna, semplicemente una colonia, di cui disporre liberamente. I nuovi invasori, agli occhi della gente, sembrerebbero persino peggiori dei vecchi, gli Spagnoli. I Piemontesi avevano stabilito che i vari quartieri cittadini, per essere meglio controllati dai militari, venissero separati da pesanti porte, queste vengono abbattute e tutti gli abitanti della città fanno fronte comune. Si armano con quello che hanno a disposizione, e si avviano verso il quartiere dei militari, e del potere. Solo la borghesia, di cui fanno parte i due arrestati, e che ha fomentato la rivolta, dispone di armi da fuoco, mentre i popolani sono armati di forconi e bastoni. Le guarnigioni, bene armate e organizzate, danno l’impressione di non poter essere sconfitte, ma la gente armata e decisa fa paura. E le motivazioni sono ben forti, tra la gente esasperata. E nelle varie scaramucce cittadine, ha ragione dei soldati. Immediatamente si sentono dei colpi di cannone provenire dalla parte fortificata della città, e dai quartieri ribelli si alza del fumo. Hanno avuto la sfrontatezza di sparare sulle case, il che viene giudicato ignobile da tutta la popolazione. Quel fumo è così evidente, che mette in allarme la gente di tutti i quartieri, e tutta la popolazione cittadina, in breve, si riversa compatta contro i Piemontesi. È rivolta aperta, i soldati nulla possono contro tutta una città inferocita, e subiscono continue sconfitte, ricacciati verso i palazzi fortificati del potere, abitati da gente odiosa, che ha sempre fatto del ricorso alla forza la sua principale caratteristica, e vessato continuamente una popolazione inerme. Ma ora gli sconfitti sono loro, e devono arrendersi allo strapotere della gente. Gavino e Antoneddu, sono arrivati in città, soprattutto in cerca di avventura, non si tirano certo indietro e combattono anche loro a fianco della gente. Anche dalle loro parti i dominatori sono invisi alla gente, sottraggono risorse, e usano il pugno duro, verso di essa, spesso senza motivo. E poi la pratica sistematica che adottano per espropriare la gente di buona parte del bene prezioso e limitato di cui hanno sempre goduto, la produzione di carne e latte delle loro greggi, ha creato continuamente malcontento. Un depredare la loro terra, senza averne nulla in cambio. Né strade, né bonifiche, né scuole, e nemmeno una parvenza di libertà per decidere del proprio futuro. E a casteddu, la risposta della gente è generale, tutti i quartieri uniti contro i Piemontesi, tutta una città in rivolta, ricchi e poveri insieme, la gente a fianco delle persone colte, persino alcuni abitanti dei quartieri alti, controllati dalle milizie, si ribellarono agli invasori, pur avendo avuto sempre da loro un trattamento di riguardo. Evidentemente i Piemontesi hanno creato disagi dappertutto, persino alle persone a loro più vicine. Antoneddu e Gavino si rendono conto che nessun esercito può contrastare la gente inferocita, se unita. E ricordano la cantada a cui hanno assistito qualche anno prima, che trattava i temi della rivoluzione francese, e anche se allora pensavano che una simile evenienza non potesse succedere altrove, almeno così in fretta, ora si trovano di fronte alla trasposizione isolana di quegli avvenimenti, ormai è chiaro che nessun potere può contrastare la gente. Grande dappertutto è la paura che incutono le milizie che controllano la città, la potenza delle loro armi, e la loro organizzazione, ma stavolta la gente raccoglie il suo coraggio, non è disposta, a costo della propria vita, a subire soprusi; quando la gente è motivata, nulla possono nemmeno loro. Ora i due ragazzi lo sanno, e sanno che tutto quello che hanno sentito nelle cantadas, era possibile e reale. Si rendono conto che la gente, finalmente, può contrastare uno sparuto gruppo di potenti, che hanno dalla loro solo forze militari, e se continueranno a comportarsi come loro solito, sono destinati ad essere azzerati. E fanno parte di quelle legioni, soprattutto figli del popolo. Per questo nessun soldato resta ucciso sulle strade che portano ai palazzi del potere, nemmeno il loro comandante Piemontese. E una volta entrati nel palazzo, nemmeno una suppellettile, è stata trafugata dalla gente. La massima espressione del potere dominante, il viceré, deve però sottostare alle decisioni della gente, avrebbe avuta salva la sua vita, e quella delle persone a lui vicine, solo se avesse abbandonato l’isola. Lui accetta di malavoglia, e inizia così la caccia al Piemontese. Nessuno di loro deve restare in città, e molti dissimulano la loro provenienza, dicendo di essere Sardi. Ma c’è un metodo per capire se siano effettivamente isolani, e Gavino e Antoneddu, vengono delegati, insieme ad altri giovani, di accertarne la provenienza. Con un semplice espediente assolveranno al compito: viene raccomandato loro, quando incontrano una persona che potrebbe essere Piemontese, di invitarlo a pronunciare una semplicissima parola sarda, cixiri, che vuol dire ceci, e chi non la pronuncia in modo corretto, non è evidentemente Sardo, dato che il piemontese non riesce a dare la giusta inflessione alla parte centrale della parola, e viene obbligato a recarsi al porto, salire su una nave, e a far compagnia al viceré, in partenza forzata per il continente. Qualche giorno dopo, oltre cinquecento funzionari Piemontesi fanno compagnia alla famiglia del viceré, e lasciano la sardegna. La dirigenza occupante è così azzerata, e il parlamento sardo prende i pieni poteri. Ormai padrona della città, la gente ha capito che un nuovo ordine di società è possibile, ed ogni tentativo vessatorio verso la gente, avrebbe dovuto avere conseguenze. Una nuova rivoluzione è in atto, ma non siamo in francia. Viene finalmente abbandonato l’atteggiamento succube che finora ha caratterizzato la società isolana, e la gente ha capito che potrebbe contare qualcosa anche lei. In tutta la città si ode un canto impetuoso, come per decretare che la gente, oggi, è unita e invincibile:

Procurade e moderare, barones, sa tirannia, chi si nou, po’ vida mia, torrade a peis in terra … 

abbandonate la tirannia, baroni, perché, a rischio della nostra vita, vi riporteremo coi piedi per terra. 

Declarada è giai sa gherra, contras sa prepotentzia, e incominzada sa passientzia in su populu a mancare. 

È ormai dichiarata la guerra contro la prepotenza. Il popolo ha perso la pazienza e fa paura, quando è unito, e una canzone come quella non fa altro che invogliare la gente a fare fronte comune contro ogni sopruso. 
Il viaggio di ritorno dei due giovani, avviene in varie fasi, e percorrono ampi tratti camminando, e a volte approfittano della gentilezza di qualche carrettiere, che risparmia loro lunghi tragitti a piedi. Sono invasi da un senso di soddisfazione, hanno partecipato ad un avvenimento impensabile, solo qualche giorno prima. Avranno certo qualcosa di che raccontare, d’ora in poi: una rilevante parte della storia del popolo Sardo. E arrivano finalmente in paese, e riprendono la loro solita vita, ma con la consapevolezza che non dovranno più accettare di subire vessazioni, senza reagire. Casteddu è stata liberata, i funzionari Piemontesi cacciati da tutta l’isola, ma l’esercito è ancora nella sardegna, e così nascono piccoli gruppi di patrioti, che hanno deciso di rendere inoffensivi gli invasori, hanno deciso che la sardegna deve essere ridata al suo popolo. Si diffonde dappertutto uno spirito di liberazione che fa sentire tutto un popolo unito verso un obiettivo comune, contro chi ha invaso la loro terra, e la ha depredata dei beni, senza concedere in cambio alcunché. E la gente prende possesso della sua terra, in ampi tratti di territori prima, e nelle sua totalità in tempi successivi. La vittoriosa rivolta, partita da casteddu, nella zona più meridionale dell’isola, si diffonde dappertutto, il pieno controllo del territorio è assicurato, il parlamento Sardo regna sovrano, e i militari sono destinati a garantire unicamente l’ordine sociale. I cantadores hanno un ruolo attivo in quell’opera di diffusione di notizie, e abbandonano temi mitologici o storielle inventate solo per cercare improbabili rime, e dedicano tutte la loro energie, per diffondere un senso di appartenenza mai trasmesso prima. Uno di loro, tra i più conosciuti nell’isola, si informa da Gavino e Antoneddu, di ciò che è avvenuto realmente a casteddu, notizie raccontate in prima persona gli saranno estremamente utili, e le sue cantadas, d’ora in poi, tratteranno un tema fondamentale: il riscatto della gente Sarda. La sua libertà. Canteranno di come è stata possibile la auto determinazione, di un intero popolo. E i gruppi di patrioti, diventano sempre più numerosi, e si sente, nelle cantadas, il racconto delle loro gesta. Monta in tutta l’isola un senso di avversione verso gli invasori, che dal canto loro, capendo di non essere in grado di contrastare tanta determinazione, variano i loro atteggiamenti spavaldi, e si rintanano nelle loro roccaforti. La borghesia, però, seppure sopporta a malincuore i Piemontesi, ha una priorità, che non è quella della gente: vorrebbe azzerare l’ingombrante presenza dei baroni, e sostituirsi a loro. E il nuovo potere deve dimostrare di poter dominare, anche a scapito del popolo, altrimenti potrebbe correre grossi rischi. E se il potere legislativo è in mano alla borghesia Sarda, non è certa che i soldati, tra le cui fila ci sono tanti figli della sardegna povera, obbediranno a loro, piuttosto che alla risolutezza della gente, che ha ingrossato le fila dei rivoltosi. Ma hanno a disposizione metodi per convincere tutto un popolo, e la gente viene plagiata, e seppure sa perfettamente che dovrà contrastare sia i Piemontesi che i baroni, accetta di combattere solo questi ultimi. Tra le fila dei rivoltosi si sono insinuate idee estranee, bene avrebbero fatto a contrastare entrambi, e non solo il feudalesimo. E quando, un giorno, Gavino, che ha capito perfettamente che anche i Piemontesi vanno considerati nemici, si trova suo malgrado, coinvolto in una discussione che tratta proprio quei temi patriottici, viene segnalato da alcuni soldati, ai loro superiori, che già sanno che ha partecipato ai moti popolari di casteddu. I giorni successivi il ragazzo immagina di non essere al sicuro, perché un suo amico gli confida che i Piemontesi stanno raccogliendo prove contro di lui. Lui stesso è stato interrogato riguardo alla sua amicizia con Antoneddu e Gavino. E, nonostante gli invasori abbiano perso buona parte della loro baldanza, e non si sognano di affrontare i rivoltosi in campo aperto, qui si tratta di agire verso un singolo, indifeso ragazzo. Forte con i deboli, e debole con i forti. Quando lui viene a sapere che è stato compiuto l’ennesimo furto di bestiame, contro un ricco latifondista, immagina che lo verranno a cercare. Immagina che se un colpevole deve esserci, è meglio che sia una testa calda come lui. Dall’alto della collina che domina la vallata, scruta continuamente le varie strade che portano a lui, e quando vede quattro soldati che si dirigono verso il suo stazzu, è certo che siano venuti ad arrestarlo. Infatti i quattro entrano nel rifugio, ma non trovandolo, si dirigono verso il gregge. Gavino scruta da lontano tutti i loro movimenti, e decide che non si assoggetterà a punizioni non meritate, e frutto di prove costruite ad arte. Quattro soldati non si recano in un posto così isolato per raccogliere prove, sono venuti per arrestarlo. Si dà alla macchia, non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo, in un tipo di società che deve registrare il fatto che chi non si assoggetta al potere, viene colpito duramente. Ma le milizie non sono presenti nell’isola per sedare rivoluzioni, ormai il loro compito si riduce unicamente a controllare che non vengano commessi reati troppo gravi, e in un certo qual modo ubbidiscono ai voleri del parlamento Sardo, che ha deciso di far tornare il viceré a casteddu. Un autentico tradimento contro i propri conterranei. Certo è che la stragrande maggioranza dei latitanti hanno compiuto reati gravi, omicidi frutto di faide plurisecolari, abigeati e rapine, e non sono certo una sparuta minoranza. Il giorno dopo, Gavino viene a contatto con un gruppo di latitanti, e decide di unirsi a loro. La vita che trascorre alla macchia, non è del tutto dissimile da quella che conduceva in precedenza, solo non può godere in tutta libertà della vicinanza della sua famiglia, gli pesa il fatto di non poter scambiare pareri col suo maestro di vita, Isidoro. E se prima il tempo veniva trascorso seduto su qualche roccia, a controllare il gregge, ora è continuamente in marcia. E qualche notte riesce ad introdursi in casa, in barba ai controlli. In paese conoscono benissimo la sua storia, molti sono stati interrogati, nella speranza di carpire loro informazioni sul ragazzo, ma lui gode della protezione dei suoi compaesani. Ma quando viene a sapere che è stato inserito nella lista dei più pericolosi, e promessa una ricompensa per chi avesse dato informazioni su di lui, in modo da poter essere catturato, si fa ancora più guardingo, e dirada le sue visite in famiglia. Il gruppo di latitanti ai quali si è unito, decide di seguire la strada logica che viene loro prospettata, ed entra a far parte del piccolo esercito che nella parte settentrionale dell’isola, sta combattendo vittoriosamente gli invasori. In genere i piccoli gruppi che contrastano i Piemontesi, hanno la meglio perché le loro azioni sono fulminee e inaspettate, e la conoscenza perfetta di montagne e colline, dal punto di vista logistico, concedono loro vantaggi decisivi. È in atto una vera e propria rivolta, ma confrontarsi in campo aperto, avrebbe dovuto avere la conseguenza di rinunciare ai vantaggi che il territorio offre loro, e la maggior parte dei componenti del piccolo esercito, ritiene che ciò non sia opportuno, almeno per ora. Ma lo scopo è cacciare definitivamente dall’isola i baroni, e scaramucce così poco rilevanti non sarebbero state sufficienti. Tra loro, se pure aspirano a rendersi autonomi dagli invasori, si fa strada l’idea che il vero nemico da combattere è il feudalesimo. E se pure Gavino pensa che la scelta sia sbagliata, in quanto avrebbe combattuto volentieri anche i Piemontesi, si adatta gioco forza a quella logica. Certo è però, che non tutti hanno una visione comune di quali straregie adottare, i più scalmanati ritengono che sia necessario cacciare gli invasori, altri, e non sono una sparuta minoranza, pensano che la rivolta si possa ricomporre facilmente, e cercare di ottenere maggiore decisionalità del popolo Sardo, pur in presenza dell’esercito Piemontese, e la ristabilita carica vice regia. E già dalle prime battute della rivolta, un significativo risultato è stato ottenuto: i rappresentanti degli antichi casati, che hanno sempre oppresso la gente, i baroni discendenti della società feudale non del tutto azzerata, hanno scelto, per non correre rischi, di andare via dalla sardegna, e la gente ora si sente di decidere per il proprio futuro. È la volta buona per cercare l’occasione di estinguere quella forma arcaica di oppressione sulla gente, ma non ne sapranno approfittare. Fanno parte del piccolo esercito, per lo più persone che sono state costrette alla latitanza, proprio come Gavino, persone estremamente decise, ma non mancano alcune persone colte. Tra le altre cose, li unisce il canto che il ragazzo ha sentito per la prima volta a casteddu, procurade e moderare … Il canto, in breve tempo, è conosciuto da tutta la popolazione Sarda, e per una volta, la gente si sente parte di un progetto comune, in una società che è sempre stata estremamente individualista. Forse la rivolta può essere indirizzata anche verso gli invasori. A volte non servono ragionamenti astrusi, o azioni concrete e vittoriose, o la raccomandabile pratica di diffondere informazioni, e idee, che hanno lo scopo di dimostrare che si combatte un nemico, che non tiene in alcun conto dei diritti della gente, a volte basta una canzone per unire tutto un popolo. Si crea in questo periodo, un reale senso di appartenenza, fini comuni, il popolo Sardo ha riacquistato la sua dignità, persa fin dai tempi della dominazione spagnola. Ma anche allora, per tre anni, la popolazione ha costretto i soldati appartenenti all’armata più potente che esisteva nel mondo conosciuto, a restare rintanati nelle loro fortezze. Le decisioni, allora come ora, venivano prese da un parlamento sardo, e la gente dominava dappertutto. Tre anni, tre soli anni, poi la vendetta del potere. E Gavino, ancora una volta, si sente parte della storia della sua terra, con i suoi compagni sta per scriverne un altro capitolo. E la popolazione, sente che una nuova fase di riscatto sta per avere inizio, e se il progetto andrà in porto, non sarà più oberata dalle ingiuste e troppo esose tasse, che tutte le nazioni che l’hanno dominata finora, hanno imposto, e sentono un reale senso di fiducia verso il futuro. Questa terra, pur essendo considerata tra le più miserevoli del globo, lo è solo per un motivo: le risorse prodotte dalla gente non sono mai restate qui. Solo durante il periodo dei giudicati, nonostante dappertutto vi fosse fame e miseria, la sardegna godeva, con i dovuti distinguo, visto che quel periodo storico, altrove, è stato il più buio di tutti i tempi, di condizioni che al confronto si potevano definire favorevoli. E il potere, allora esercitato da nobili Sardi, nobili solo di nome, non si comportava in maniera troppo dissimile dagli invasori del passato, evidentemente l’animo umano, quando ha l’opportunità di dominare, usa tutti i mezzi, anche per prevaricare la sua stessa gente. Ma almeno le risorse restavano nell’isola, anche se i poveri non ne potevano godere direttamente. Il segreto è tutto lì, per un reale sviluppo, bisogna che la gente possa godere del frutto del proprio lavoro. E in quel periodo nacque e si sviluppò una lingua sarda, una lingua comune, originale, con assonanze che la mettevano per lo meno alla stessa stregua delle altre lingue nascenti, l’italiano, il francese, quelle della penisola iberica, e dei territori romeni, tutte lingue che hanno la stessa valenza, se non inferiore alla lingua sarda. Dato che in periodo nuragico e shardana i Sardi erano provetti navigatori e commercianti, si può agevolmente supporre che in termini linguistici abbiano più dato che ricevuto. E se pure, inizialmente, si dovette distinguere tra due lingue diverse, il campidanese e il logudorese, entrambe avevano uguale dignità. Concetti riconducibili a senso di appartenenza erano presenti soprattutto al nord, il confronto era sostanzialmente con le logiche di un esercito controllato da chi diffonde istanze borghesi, diffuse soprattutto nella parte meridionale dell’isola. Ma tornando ai tempi attuali, quando l’esercito Piemontese si dedica ai soliti soprusi, viene osteggiato, ma controlla ancora parzialmente il territorio meridionale, la gente sa che se gli invasori superassero il momento sfavorevole, alla povera gente verrebbero negati i pochi diritti di cui ancora gode. Gavino può approfittare di un periodo di relativa libertà, e pur facendo parte a tutti gli effetti delle milizie dei Sardi, qualche volta ha occasione di rivedere la sua famiglia. Ormai ha un cavallo a disposizione, e gli viene facile spostarsi dove crede. In paese viene considerato una persona di tutto rispetto, ma lui sa benissimo che gli eventi che lo hanno portato fin qui, sono stati casuali. Ed ha modo di assimilare le concezioni della rivoluzione francese, per il fatto che annovera tra i suoi migliori amici d’arme, un soldato proveniente da marsiglia, in sardegna già da qualche anno, per diffondere tra la gente i principi cha hanno portato il popolo Francese ad avere il sopravvento sulla monarchia assolutistica. La strategia è stata proficua dappertutto sia stata adottata, le idee di giustizia che la rivoluzione ha trasmesso alla gente, sono state come una testa di ponte per gli eserciti rivoluzionari Francesi. E lui, Jacques, fa intravvedere ai vari gruppi di latitanti, che un nuovo ordine di cose, è possibile e auspicabile. Fa opera di proselitismo in lungo e in largo dove capitasse l’occasione, tra i civili e i militari. E Gavino assimila, anche stavolta, senza resistere, quelle idee di libertà e di autodeterminazione, che gli sembrano congeniali al suo antico modo di pensare, rafforzandone i concetti.

Allons enfant de la patrie, le jour de glorie est arrivè.

Ma queste idee, evidentemente, devono essere osteggiate da chi ha paura di perdere il potere, e i pochi nobili rimasti, soprattutto al sud, e il clero, venuti a conoscenza della propaganda del Francese, hanno stabilito che anche verso di lui, doveva pendere una taglia. In questa fase stanno facendo opera di persuasione sulla gente, per osteggiare una eventuale diffusione di idee nuove. Accusano i rivoluzionari di bruciare le chiese e stuprare le donne. E molta gente, disinformata e succube di tali poteri, si organizza per combattere quel nuovo ordine di cose, che tende a portare condizioni migliori a loro stessi. I più attivi sono i rozzi preti di ogni singola parrocchia, che vedono pericoli soprattutto riguardo all’esazione della decima dovuta dalla gente al clero. Ancora una volta la storia va letta sotto il profilo economico, e non umano. Un non saper leggere la storia, o forse un non venire informati in maniera veritiera, fatto sta che l’antica predominanza dei ricchi sui più deboli, anche stavolta, potrebbe avere il sopravvento. Ma ci sono i cantadores che, dove e quando possono, non si tirano indietro per far conoscere alla gente la verità. 

Penza beni, populu Sardu, e cumprendi innui esti su beni, e innui esti attaccau su mali, arregoda cantu asi sunfriu, fina de sa notti de is tempus, su fattu chi non es cambiau nudda, imoi nisciunus poderi tenidi contu su beni de osatrus, ada fairi andai is cosas de mali in peus, esti arribau su tempus de mudai sa vida, de nos intendiri unu populu, e non ti fidai mancu de sa genti tua, chi anti seciu in su parlamentu, issus olinti fetti pigai su poderi chi fudi de is baronis, non penzanta a su beni de sa genti.

È necessario cambiare, Gavino sa bene che lasciare le cose come stanno, è sicuramente peggio. In particolare Jacques diffonde un documento che la repubblica Francese ha stilato, per far capire alla gente, quanto importante sia per se stessa, l’affermazione delle sue idee di futura società. Riporta per intero, alla gente, le frasi contenute in tale documento, redatto come un proclama verso la gente Sarda, che avevano deciso di liberare, qualche anno fa, dal giogo dei Piemontesi:

pace, assistenza, libertà, e uguaglianza all’amico popolo Sardo, la repubblica Francese è a favore della gente, e combatte tutte le monarchie assolutistiche presenti sulla terra. Liberiamo il popolo Sardo dall’oppressione straniera, dalle schiavitù, dai diritti feudali, per noi il popolo è sovrano. Noi decretiamo il rispetto per ogni singola persona, la sua dignità, la libertà di decidere per il meglio, libertà di appartenere ad una religione, ad una nazione autonoma, libertà dall’ignoranza, perché le decisioni che vengono dalla gente, sono sacre per la nostra repubblica. Fratellanza tra tutti i popoli, e se vendetta ci deve essere, dovrà deciderlo il popolo. Libertà, uguaglianza, fratellanza tra i popoli, e guerra agli oppressori. Noi siamo amici di tutte le genti, e nemici di tutti i despoti.

Qualche assonanza salta immediata alle orecchie di Gavino, con la canzone sarda che così bene conosce, e le melodiose espressioni che escono dalle corde vocali di Jaques, gli fa capire che tutto un popolo deve combattere anche gli invasori, e non solo i baroni. E ha imparato a suonare, col suo flauto, sia la marsigliese, che procurade … Jaques si trova in sardegna, per uno scherzo del destino, faceva parte dell’esercito Francese destinato a cacciare i Piemontesi, ma una volta sbarcato, insieme ad alcuni commilitoni, si è trovato isolato e impossibilitato a raggiungere le navi francesi cariche di soldati, venuti a liberare il popolo Sardo. In quell’occasione, per una volta, l’esercito repubblicano Francese, che riportava vittorie dappertutto, non è riuscito a invadere la sardegna, e gioco forza Jacques è dovuto restare nell’isola. E ne ha approfittato per diffondere le sue idee, e quelle di tutto un popolo. Ora si trova bene a contatto con i Sardi, e ha deciso di combattere per loro. La sua scarna filosofia non prevede l’esistenza di stati, o nazioni, in perenne conflitto tra loro, certo che gli interessi che muovono le guerre, sono appannaggio solo dei potenti, che non si curano di quante vittime potrà fare un conflitto. Per lui la guerra può avere un senso, solo se è condotta dalla gente contro i potenti, ben sapendo che in una guerra combattuta secondo i canoni del passato, chi ci rimette è sempre e solo la povera gente, militari o civili che siano. Inutile morire per una causa borghese o elitaria, anche se espressa da connazionali, se si decide di sacrificare la propria vita, deve essere per la gente, non importa a quale nazione appartenga. E le sue parole, così inusuali e innovative, fanno breccia nella sensibilità di Gavino, che lo sceglie come suo migliore amico, nonostante ci sia una rilevante differenza di età tra loro. Gli sarebbe piaciuto che le due persone che per lui hanno grande rilevanza, un giorno si potessero incontrare, Jaques e suo nonno Isidoro. E non è detto che ciò non avvenga. Immagina i loro ragionamenti convergere su molti punti di contatto, pur avendo esperienze di vita nettamente dissimili. Entrambi possiedono l’intelligenza di capire che gli stati sono creati per dividere la gente, e i potenti, in genere, non fanno gran conto delle frontiere, istituite per creare barriere per la gente, non certo per loro. E hanno l’intelligenza di capire che l’eterna logica che la storia consegna alla gente, è dividere e creare ostilità, per poterla controllare meglio. E sanno perfettamente che gli eserciti, costruiti da loro stessi, per il loro dominio personale, dovranno essere finanziati dal lavoro e dai sacrifici della povera gente. Un sottrarre risorse al progresso, per creare situazioni di morte e distruzione. Per entrambi sembrerà illogico che si sacrifichino vite umane, in cambio di territori, una pratica che dovrebbe apparire aberrante per entrambi. Non credere più al dominio di nazioni su altre, la logica che è sempre passata per buona per millenni, perché i potenti sanno benissimo che le guerre si combattono contro la gente, e non tra nazioni. Ma forse i dettami della rivoluzione francese, ora, potranno far presa sulla gente, se sarà così intelligente da capire che le frasi ad effetto che hanno dovuto subire per secoli, sono innaturali e tendenziose, martellamenti ipnotici che nulla hanno a che vedere con la razionalità, col sentimento che dovrebbe essere naturalmente condiviso. Scoprire che le persone sono tutte uguali, e invece tra la gente si è diffusa la favola che una persona vale solo se possiede titoli nobiliari, o potenza economica, gli altri devono essere assimilabili ai servi, appartenenti ad una specie subalterna. E la gente Sarda è stufa di essere considerata serva, e sta mettendo in condizioni di non nuocere, sia i nobili che l’esercito. E infatti tutta la parte settentrionale dell’isola è stata liberata dal giogo dei baroni, che hanno pensato bene di fuggire lontano dai pericoli, e le navi che tanto spesso hanno fatto vela verso altri lidi, portando con se risorse, ora trasportano l’espressione peggiore del genere umano, quella che ha sempre inibito lo sviluppo di tutto un popolo. Per una volta trasporteranno lontano dall’isola, non solo risorse, ma anche negatività. E non saranno i soli ad andar via, fanno da accompagnatori tutta una serie di personaggi squallidi, funzionali per assoggettare la sardegna, gente a loro vicine, delegate a riscuotere risorse essenziali alla povera gente, a favore di quegli autentici parassiti sociali.


Per entrambi sembrerà illogico che si sacrifichino vite umane, in cambio di territori, una pratica che dovrebbe apparire aberrante per entrambi. Non credere più al dominio di nazioni su altre, la logica che è sempre passata per buona per millenni, perché i potenti sanno benissimo che le guerre si combattono contro la gente, e non tra nazioni. Ma forse i dettami della rivoluzione francese, ora, potranno far presa sulla gente, se sarà così intelligente da capire che le frasi ad effetto che hanno dovuto subire per secoli, sono innaturali e tendenziose, martellamenti ipnotici che nulla hanno a che vedere con la razionalità, col sentimento che dovrebbe essere naturalmente condiviso. Scoprire che le persone sono tutte uguali, e invece tra la gente si è diffusa la favola che una persona vale solo se possiede titoli nobiliari, o potenza economica, gli altri devono essere assimilabili ai servi, appartenenti ad una specie subalterna. E la gente Sarda è stufa di essere considerata serva, e sta mettendo in condizioni di non nuocere, sia i nobili che l’esercito. E infatti tutta la parte settentrionale dell’isola è stata liberata dal giogo dei baroni, che hanno pensato bene di fuggire lontano dai pericoli, e le navi che tanto spesso hanno fatto vela verso altri lidi, portando con se risorse, ora trasportano l’espressione peggiore del genere umano, quella che ha sempre inibito lo sviluppo di tutto un popolo. Per una volta trasporteranno lontano dall’isola, non solo risorse, ma anche negatività. E non saranno i soli ad andar via, fanno da accompagnatori tutta una serie di personaggi squallidi, funzionali per assoggettare la sardegna, gente a loro vicine, delegate a riscuotere risorse essenziali alla povera gente, a favore di quegli autentici parassiti sociali.
 Quanto è lontana la noia delle giornate trascorse ad accudire le pecore, ora la vita gli riserva emozioni forti! Le sue scorribande con il suo amico Jacques, ascoltare i suoi racconti che narrano le gesta della gente durante la rivoluzione francese, lo invogliano a pensare che quello che stanno compiendo è solo l’inizio di un’avventura di tutto un popolo, un piccolo popolo, se raffrontato alla grande nazione francese. Ma il più deve essere ancora compiuto, il potere diffuso dei baroni, è stato cancellato dappertutto, ma la resistenza maggiore verrà dalla città di casteddu. La gente lì, non si sa da quale parte si schiererà, ma l’esercito del viceré non resterà certo a subire invasioni della città più importante della sardegna, e si decide che marcerà contro l’improvvisato esercito isolano. La strategia del viceré non si esaurisce qui, deve fare un ultimo tentativo per bloccare la marcia di quei rivoltosi, non sa bene se verrà destituito o meno, una volta che casteddu verrà invasa, e non vuole correre eccessivi rischi. Manda degli emissari a sobillare la popolazione di un grosso paese destinato ad essere attraversato dall’esercito dei Sardi, e, forte del prestigio di cui ancora gode, impone a chi detiene il potere locale, di non accogliere quella gente, come hanno fatto tutti i paesi finora attraversati, e fa diffondere la voce che chi abbandonerà la rivolta, godrà di una amnistia generale. La strategia ottiene il successo sperato, l’esercito in marcia non viene accolto benevolmente dalla popolazione di quel paese, e loro si vendicano della fredda accoglienza, compiendo delle razzie nelle case dei più abbienti. È l’inizio della fine, si diffonde la voce, ingigantita ad arte, che i rivoltosi non siano così affidabili come si vorrebbe far credere, e agiscono per interessi personali, vengono fermati più a sud, sul ponte che attraversa il fiume tirso, a ridosso della cittadina di aristanis, e l’improvvisato esercito deve fronteggiare persino la popolazione di quella cittadina. I rivoltosi non sono più visti dalla gente come liberatori, ma come degli improvvisati saccheggiatori. Viene così meno il maggiore supporto di cui hanno goduto finora, e non avendo più il favore del popolo, sobillato dagli emissari del viceré, che li ha accolti a fucilate, sono costretti a disperdersi e abbandonare la lotta, proprio nel momento in cui sentivano per le mani un forte senso di libertà, già conquistata in buona parte dell’isola. In quella situazione topica, sarebbe stato utile fermarsi qualche giorno a riflettere, a capire eventuali errori, a valutare le opportunità ancora in essere, mantenere i territori conquistati, e da lì riprendere la lotta. Invece, il senso di frustrazione provato nel momento in cui si sono accorti che la gente non sta più dalla loro parte, per sua colpevole valutazione errata di avvenimenti, o forse causata da condizionamenti che il potere riesce spesso a imporre, sfruttando la dabbenaggine delle persone, genera un forte senso di frustrazione tra i ribelli. Perché combattere, rischiare la propria vita, per gente che non ha capito da che parte stare? Che non ha capito chi è il vero nemico da combattere? Ciascuno ritorna alle proprie case, frustrato e avvilito, soprattutto per il fatto che non si è riusciti a sensibilizzare la gente sulle ottime intenzioni del piccolo, improvvisato esercito. Non ha capito che si stava schiudendo per lei una nuova era, e si sono fatti abbindolare dalle promesse del viceré. Gavino e Jacques decidono di restare insieme, la loro amicizia è più forte di qualsiasi avversità, e qualche giorno dopo giungono in ogliastra, a casa del giovane. La notizia che riceve è di quelle che costringono il pur forte Gavino, ad abbandonarsi ad un pianto inconsolabile: è morto, una decina di giorni fa, il suo maestro di vita, il patriarca: Aiaiu.

Su coru meu es disisperau e tristu, e chini m’ada a curai, a ligiri su camminu, e cali esti s’arregodu, chi mindi ada a liai su sentidu, imoi chi sa raigini de memoria s’è segada? Nannau, nannau miu stimau, m’asi lassau in su scurìu, frida esti sa luxi de sa vida mia. 

È sconsolata l’anima mia, chi mi illuminerà la strada, ora che la luce dei miei passi si è spenta? Potrei impazzire, ora che è diventata fredda la luce della vita. Certo è che la strada del ragazzo non potrà essere più illuminata, ora che il grande sogno di libertà si è infranto, ora che il suo maestro non c’è più. Ma non si rassegna, lui che ha visto tanti avvenimenti che la storia consegnerà alla rabbia del popolo, a spendere la sua vita tra greggi e lavoro rurale. Quando la storia racconterà che l’isola aveva a disposizione la possibilità di potersi affrancare da dominazioni straniere, e non è riuscita ad approfittarne, la gente isolana si renderà ben conto, che non bastano estemporanee ribellioni, che non sono sufficienti piccole battaglie vinte, ma sarà necessario un vero spirito nazionale, un andare tutti verso la stessa direzione, e non farsi abbindolare dalle storielle del dominatore di turno che, tra lusinghe e promesse, ha in cuor suo il desiderio di sottomettere in maniera sempre più pesante. Ha vent’anni, Gavino, e deve decidere il corso che ha intenzione di dare alla sua vita. No, non farà più il pastore, non vuole consegnare la sua esistenza alla banalità, il suo carattere non è adatto per costruirsi il futuro passo passo, sposarsi, mettere al mondo un piccolo esercito di figli, e morire giorno dopo giorno tra sofferenze e sacrifici. Non è disposto a stare dalla parte di chi non può difendersi. Ha visto avvenimenti troppo rilevanti, deve districarsi dalla miseria che lo attende. E sa che la vita della povera gente, ora sarà più dura che mai, i baroni, che alla chetichella stanno rientrando, certo vorranno vendicarsi dell’onta subita, e il potere non è così generoso verso chi ha osato contrastarlo. Contravvenendo alle disposizioni promesse, molti insorti vengono arrestati e condannati a morte. La mano dura del potere si abbatte ancora una volta sulla povera gente, che non chiedeva altro che vivere una vita giusta e senza contrasti. Si chiede quali siano stati gli errori commessi, ormai avevano ogni mezzo a disposizione per prendere il potere, e non ci sono riusciti. La voglia di auto determinazione di tutto un popolo, si è infranta sullo stesso desiderio di non causare troppi morti, e Jacques, da buon giacobino, ammonisce che qualunque guerra, se si decide di essere combattuta, deve essere cruenta e decisa, l’errore, a suo modo di vedere è stato quello di essere indecisi se proclamare la indipendenza assoluta della sardegna, o imporre al viceré una auto determinazione, senza volersi staccare dal regno continentale. In guerra, per lui, figlio della rivoluzione, giacobino puro, non esistono mezze misure, o tutto o niente. Ma gli avvenimenti hanno riconsegnato la sardegna al feudalesimo, e insieme, Gavino e Jacques, decidono che non potranno vivere in quel contesto, senza libertà. Devono escogitare qualcosa per evitare una vita grama e senza senso, costi quel che costi. E sanno perfettamente che, se pure si adatteranno a quella vita, saranno costantemente in pericolo di arresto, il potere colpisce prima i più pericolosi, ma non si scorda nemmeno di chi potrebbe nuocere per il suo futuro, una testa calda rimane sempre un problema da risolvere. Hanno capito che la gente, se integrata col sistema economico dominante, risponderà agli ordini del potere, non per sua scelta volontaria, ma per i condizionamenti che questo riesce ad imporre, forte del fatto che le notizie e le informazioni, la stessa filosofia esistenziale, sono diffuse da organismi alle proprie dipendenze. Un plagiare continuo, un annebbiare cervelli e coscienze, un imporre regole condivise che mai vanno a favore della gente, dominare, insomma, prima di tutto, sotto il profilo culturale. Condizionare, prima di tutto, cervelli. Sfruttare la dabbenaggine della gente, condizionarla con assunti dominanti, evitare di far intravvedere loro che esistono altre strade percorribili, sfruttare consuetudini imposte da loro stessi, fin dalla notte dei tempi. Focalizzare l’attenzione della gente su argomenti secondari, per distrarre l’attenzione da quelli per se stessa pericolosi. Ragionare in termini di avanzamento è pratica difficile da attuare, le idee nuove hanno bisogno di troppo tempo per venire assimilate, e la vita di ciascuno non è poi così tanto lunga, bisognerà che i due trovino una soluzione per non venire inglobati da un sistema che a loro, ormai, è diventato odioso. E ne capiscono tutti i meccanismi, ormai. E decidono di combattere il sistema, lo faranno da latitanti, scelgono di vivere una vita disagiata, ma libera. Ecco la parola che ha fatto presa sulla loro sensibilità: la prima parola che la rivoluzione francese ha imposto al mondo, le altre due, uguaglianza e fratellanza, per Gavino e Jacques, assumono minore rilevanza. E stanno all’erta, acquisiscono informazioni certe, riguardo alla visita che alcuni ricchi commercianti dovranno compiere nell’isola, alla ricerca di merci da acquistare, e certo avranno con loro molti soldi per pagarla. I due sono venuti a conoscenza della notizia, da alcuni boscaioli, che hanno appuntamento con compratori di legname tra qualche giorno. Il giorno stabilito li sequestrano, li privano dei loro soldi, sufficienti per riempire di legname una grossa nave, lasciano libero uno di loro, che dovrà rientrare nella terraferma, e comunicare alla società di appartenenza e alle famiglie dei sequestrati, la cifra per il loro rilascio. Si rifugiano tra i monti della barbagia con i sequestrati. Il cammino, in sella ai cavalli, è rischiosa, devono allungare di molto, e spesso, il tragitto, e mai frequentare strade importanti, costantemente controllate dai soldati; il guado di alcuni fiumi è anch’esso problematico, ma arrivano sani e salvi alle pendici della catena montuosa del gennargentu. La zona, ora, è più sicura, godono della protezione di immense foreste secolari, e della collaborazione dei pastori della zona. L’omertà tra la gente Sarda, non è intesa come un crimine, ma come il riconoscere a chi decide di andare contro la legge, una forma di libertà personale, un decidere per loro stessi quale futuro costruirsi. E chi, per sua fortuna, non viene riconosciuto come autore di sequestri o rapine, in genere riprende la sua vita usuale, ma in condizioni meno tristi. Una forma di decisionalità che viene intesa come un risarcimento delle vicissitudini passate. Un diritto ad un’esistenza che non sia più servile. Un mese dopo le loro tasche sono gonfie di monete, sufficienti per consentire loro una vita più che tranquilla. Ma la loro aspirazione non è certo una vita calma e assonnata, il piacere del rischio ormai fa parte della loro personalità, anche se, se volessero, potrebbero rientrare nella società senza grossi rischi, dato che nessuno li ha visti in viso. No, preferiscono restare alla macchia, e ingrossare le fila di una categoria di persone abbastanza diffusa nell’isola, quella dei banditi. Godono della protezione dei pastori locali, anche loro fortemente critici sulla società feudale che ha tornato a imporre le regole del gioco, e i loro contatti sono quotidiani e proficui per le due parti. Certo è che qualsiasi pastore, vedendoli scorrazzare in lungo e in largo in sella ai cavalli, potrebbe invidiarli, considerando anche il fatto che certamente le loro bisacce sono stracolme di denaro, a differenza delle loro, drammaticamente e sconsolatamente vuote. Ma anche loro, per la loro collaborazione, qualcosa riescono a guadagnare, e forniscono rifugio e assistenza in cambio di qualche moneta. Un sistema ben collaudato, un avere a disposizione una miriade di pastori che controllano il territorio per loro, un sistema in atto, probabilmente, fin dalla notte dei tempi. Il dover decidere se mettersi dalla parte dei loro stessi conterranei, o aiutare l’odioso invasore, non comporta grandi analisi, la strada è già segnata dalle consuetudini acquisite, dai loro avi. E nessuno si sognerebbe di tradire, pure in presenza di una taglia, per questa gente il tradimento è il peggior crimine che si possa commettere. E sanno benissimo che, se anche loro decidessero di rendersi latitanti, avrebbero la protezione degli altri, banditi e pastori appartengono alla stessa categoria di sfruttati e derelitti. Anche Jacques, pur essendo nato e cresciuto in ambito cittadino, dimostra di sapersi adattare alla perfezione allo stile di vita pastorale, e si trova bene con la gente semplice e sincera con cui viene a contatto. Lui che ha vissuto tutte le fasi drammatiche della rivoluzione, sempre in prima fila, ora dimostra di godere della pace che queste foreste riescono a comunicare. Potrebbe decidere di rientrare in francia attraverso la corsica, ma ormai la sua missione è informare un popolo che gli risulta congeniale, delle grandi opportunità che presenterebbe la diffusione delle idee rivoluzionarie, e fa proselitismo tra quella gente disgraziata. Ormai tutta la popolazione pastorale conosce ogni fase che ha portato ad azzerare il potere assolutistico che ha regnato per secoli, e ciascun pastore elegge come suo idolo personale, chi Danton, chi Marat, e chi Robespierre. Ma l’idea che si diffonde più di tutte, perché forse è la più congeniale a questa gente, è quella giacobina. I due, non essendo ricercati, godono di una certa libertà di azione, e qualche volta si concedono la libertà di recarsi nei vari paesi che circondano il massiccio montagnoso. Diffondono la voce che sono degli affaristi che commerciano in legname, ma nessuno crede alla loro versione, perché mai hanno acquistato un solo carico di legna, solo i soldati credono alla loro storiella, e non hanno interesse, né a verificare la bontà delle informazioni, e nemmeno a mettersi in contrasto con personaggi evidentemente ben forniti di moneta sonante. E Jacques, ormai a contatto costante con la civiltà barbaricina, impara alla perfezione la lingua e le sue inflessioni, tanto che nessuno, a questo punto, potrebbe dire che non sia originario della sardegna, trova solo difficoltà a stemperare la naturale erre moscia, ma a forza di esercizi, quella caratteristica diviene sempre meno evidente. È molto più facile imparare una lingua, se apprezzi chi la parla, in caso contrario, può diventare problematico. E qui, tra la semplicità e l’essenzialità del mondo pastorale, il Francese si trova a meraviglia. E per dare ancora più consistenza alla versione isolana della sua personalità, sceglie di farsi chiamare con un nome tipicamente sardo, anzi sceglie una versione arcaica del nome Salvatore, che risponde al nome di Borangiu, mentre Gavino sceglie di non variare il suo nome, cambierà solo il cognome. E non frequentano, in quei paesi, solo bettole e osterie, e avendo fatto conoscenze più approfondite, riescono a farsi invitare nelle case di qualche avventore, divenuto nel frattempo loro amico. Intrattengono relazioni costanti con due donne, conosciute durante una festa di matrimonio. Non trascorre nemmeno un anno, che sono entrambi sposati, Jacques con la donna più matura, Lucia, vedova da tempo di un bandito ucciso in un conflitto a fuoco, e Gavino con una ragazza ben più giovane di lui, Greca, che per combinazione porta lo stesso nome della moglie di aiaiu Isidoro. La loro latitanza, ottenuta così una parvenza di vita regolare, se pure spesso assenti, diviene sempre più rada, spariscono dalla circolazione solo quando decidono di compiere qualche rapina ai danni di qualche ricco feudatario o a vari uffici daziari. Ma mai mettono in atto furti contro gente comune, né abigeati; provano un salutare senso di soddisfazione solo quando sottraggono denari ai ricchi e agli invasori. Come per fornire una sensata giustificazione al fatto che le loro tasche abbondano di moneta, mettono su una società di trasporti, e acquistano quattro cavalli e due carretti, che affidano a due loro conoscenti. Un anno dopo nascono i loro figli, Jacques ha la soddisfazione di vedere gli occhi azzurri e i capelli chiari di sua figlia, che chiama Luisa, nome derivato forse da un antico retaggio discendente dalle sue avventure rivoluzionarie, ma nemmeno lui sa il vero motivo dell’imposizione di tale nome, mentre Gavino ha una strada obbligata, mai e poi mai si sarebbe sognato di dare un nome diverso da Isidoro, come per fare un postumo omaggio al patriarca. E comunque, in sardegna, è usuale che si impongano i nomi dei propri avi, sia da parte femminile che maschile. Ciò che desta qualche sospetto, è però la fisionomia di Luisa, così poco rappresentata dalla moltitudine della conformazione morfologica Sarda, lui giustifica il fatto che discende da una famiglia Austriaca, infatti la sardegna ha subito per nove anni, anche la dominazione di quell’impero. Con l’andar del tempo, i due impresari, abbandonano del tutto la pratica delinquenziale, dato che la società che hanno mandato avanti, procura loro utili sostanziosi. Col tempo, i due, entrano in relazione con una società francese che commercia in legname, ne diventano soci e gestiscono la sua attività in ambito isolano, acquistano, e trasportano il legname, a bordo di una nave di proprietà della società, riescono così ad ottenere ottimi guadagni, un agire commercialmente con rischi ridotti e poca fatica, quella è riservata a chi affettivamente svolge il lavoro di taglio degli alberi. Dato che ormai la loro attività si svolge in ambito silvestre, decidono di rischiare e acquistano tutta una montagna ricoperta da noci, castagni e querce, legnami molto richiesti. L’operazione si rivela corretta, ora hanno a disposizione anche la materia prima, e offrono lavoro ad una miriade di giovani, ben contenti di abbandonare la disagiata vita pastorale. E la paga, visto che gli utili per i due divengono sempre più interessanti, è per loro soddisfacente. E la montagna, viene trattata con oculatezza, non danno vita ad una dissennata deforestazione, e tagliano alberi solo se a ridosso di essi, ne esiste un altro più piccolo, destinato a prenderne il posto, così che la foresta, vista da lontano, non risulta intaccata. Dove esistono delle malghe, queste vengono piantumate con olivi, e la loro azione riguardo alla proprietà si rivela conforme ai dettami di una corretta gestione di quel bene prezioso che è la foresta. E ottengono utili in continuazione, sono diventati forse i più ricchi del paese. Concedono in modo gratuito il pascolo ai padroni di alcune greggi di capre, che fungono così da agente naturale per liberare il territorio da arbusti ed erbacce, e in genere tra le foreste dei due si può circolare liberamente, a piedi, o col loro mezzo di locomozione preferito, il cavallo. Ma i pastori, se pure non obbligati, ricompensano i due con generosità, nei loro limiti, e nelle famiglie di Gavino e Borangiu non mancano mai né carne, né latte, né formaggi. E i loro figli, i piccoli Luisa e Isidoro, hanno a disposizione i loro giocattoli preferiti: alcune caprette. Sono rispettati da tutti, e la loro vita, in passato estremamente turbolenta, ora si è assestata su canoni più tranquilli. Trascorrono molti anni, Gavino è un cinquantenne in perfetta forma, ormai l’azienda che ha in comproprietà con Borangiu, viene gestita da gente delegata da loro, che godono di ben riposta fiducia, e quasi i due si disinteressano della faccenda, in quanto le loro entrate sono sempre abbondantemente soddisfacenti. E chi si dedica a farne le veci, non si sognerebbe mai di truffare i due, si accontentano di un’ottima paga, e della facoltà di scegliere gli operai. In mezzo ad un ambiente che finora non ha giovato di qualche trasformazione che il potere Piemontese ha voluto imporre alla gente, loro sono dei benestanti, se confrontati alla miseria che dilaga nelle montagne e nelle campagne.
Miseria e zanzare dappertutto, gente che si adatta a vivere in condizioni se non disumane, almeno estremamente disagiate, strade inesistenti, non lastricate, polvere dappertutto, paesi che danno l’impressione di essere abbandonati a se stessi, amministratori, quelli si, dalla pancia gonfia, che non si sognano di favorire in alcun modo, espressioni di progresso. E le imposizioni fiscali sono sempre troppo esose, per i miseri redditi della povera gente. Dalla rivolta a cui hanno partecipato i due, quella che per tre anni ha decretato che la sardegna avrebbe potuto essere gestita autonomamente, sembra che nulla sia cambiato. Quando un potere decide che una terra deve essere trattata come una propria colonia, non lascia risorse alla popolazione. E le navi, arrivano nei porti sardi semivuote, con solo qualche bene utile, stoffe abbastanza grezze destinate per lo più alla popolazione disagiata, vendute però a prezzi esorbitanti, e salpano stracariche di carni, lane, formaggio e legname, dal valore infinitamente maggiore, ma pagate a prezzi estremamente bassi. E i tentativi del potere di modernizzare una così disagiata parte dei loro territori, in genere vanno a vantaggio dei più abbienti, e lasciano nelle identiche, pessime condizioni, la povera gente, se non in condizioni ancora più drammatiche. In questi anni hanno imposto una legge che ha, per la conformazione economica della sardegna, e per le sue tradizioni produttive, un effetto dirompente sulla società rurale isolana. E il potere, nella persona del sovrano, è convinto di fare del bene, ma non sa a quali tristi avvenimenti porterà la sua decisione.

Il re, avolo mio d’immortal memoria, fra le molte sue cure pel rifiorimento della sardegna, manifestò il pensiero di favorire le chiusure dei terreni.

I muri raramente hanno portato benefici. Terreni che per millenni hanno visto la presenza dei pastori, liberi di circolare dappertutto, ora verranno chiusi, a beneficio dei proprietari. Molti benestanti e feudatari, potranno impadronirsi di terreni demaniali, anche questi sfruttati finora solo dai pastori. E Gavino ha modo di rincontrare il suo antico amico Antoneddu, alle prese con una situazione per lui estremamente svantaggiosa. È venuto a trovarlo a casa sua, esponendogli la situazione in cui si trova. Non ha di che vivere, è stato estromesso dalla vallata che li ha visti, da ragazzini, pascolare le pecore insieme. Per opera della stupida legge appena entrata in vigore, gli invasori, con l’intento di modernizzare l’agricoltura, una delle loro assurde risoluzioni che vorrebbero generare progresso, hanno decretato che le terre possono essere recintate dai legittimi proprietari, e infatti la vallata è stata chiusa e Antoneddu estromesso. Anche territori demaniali ed ecclesiastici sono stati recintati, e i poveri pastori, non avendo territori pascolabili, sono dappertutto ridotti alla disperazione. Una legge che voleva generare progresso, ha stravolto pesantemente le consuetudini millenarie, chiuso strade che sono state sempre percorribili, rese non più disponibili fonti d’acqua, che garantivano la sussistenza di tanti animali. Quell’assurdità viene denominata la legge delle chiudende, la grande idea del sovrano.

Tancas serradas a muru, fattas a s’afferra afferra, chi su chelu fissidi in terra, ianta serrau a issu puru.

Terreni recintati da muri, arraffati a più non posso, se il cielo fosse stato in terra, avrebbero recintato anch’esso.

Trista vida chi mi spettada, famini po is figlius mius, de s’enna de omu mia, intrada fetti miseria e morti, trista vida, arregodus de tempus passaus, chini adi torrau mabi is costumus nostus, adi penzau fetti a is arricus, anti decidiu chi depiaus morriri, poderi maladitu, eisi scumpostu is arregulas de is nostus beccius aiaius, maladitus siaisi, po sa cumbenientzia de pagus, seis fuliendi in sa disperatzioni, unu populu intreu.

Un triste destino mi attende, come riuscirò a sfamare i miei figli? Ormai dalla mia porta di casa entra soltanto miseria e morte. L’antica amicizia che lega Gavino ad Antoneddu, non può lasciare inascoltato quel grido di dolore, e il giorno dopo i due partono per l’ogliastra. Una forte emozione assale Gavino, alla vista di quella vallata, i suoi occhi possono ammirare con un senso di piacere, quello che anticamente gli risultava noioso, rivede i riflessi verdastri del mare, un falco che vola sempre più in alto, la macchia mediterranea, intinta dagli innumerevoli colori delle fioriture, che spiccano tra quelle colline, colorate da mille tonalità di verde scuro, eppure brillante al sole. Sente l’eco della sua voce, respinta dalla vallata che ha di fronte, immagina ancora una volta le melodie che suonava da bambino, e vedendo una radice buttata in terra, inconsciamente mette mano al suo coltello, che non ha mai abbandonato, e gli viene l’istinto di intervenire artisticamente su quel legno inanimato, come per trasferirgli una parvenza di vita. E non può fare a meno di notare quanto sia invecchiato il viso del suo coetaneo, e pensare a cosa ha dovuto affrontare, dopo che ha abbandonato questo posto, che ora gli appare come un paradiso in terra, rovinato però dalle immancabili zanzare. E godere della frizzante aria dal sapore salmastro del mare, vedere come degradi il verde brillante della costa, verso un blu sempre più denso. Luoghi, pensieri, situazioni immutabili, stesse sensazioni, stessi aromi e stessa pace dell’anima, che provava anche allora, quando i suoi pensieri erano rivolti solo ad ammirare quella splendida natura. E ricorda i tormenti che, già da ragazzino, provava, quando lanciava la sua immaginazione verso un futuro incerto, ma che allo stesso tempo riteneva già deciso. E stupirsi come la dinamicità della sua vita, e l’evoluzione degli avvenimenti, contrastino con l’immutabile bellezza della natura. Assorto in contemplazione, la sua mente ora è svuotata di tutti i ricordi, volge lo sguardo ora a ponente, ora verso il fiumiciattolo che scorre ai piedi della vallata, ora alla ricerca, lassù, di un’aquila reale, o scrutare il passaggio delle lepri, o di qualche cinghiale, tutte sensazioni che riemergono prepotenti. E valutare inconsciamente quanto sia fittizia e breve la vita di un uomo, al cospetto della natura. Viene destato da quella pace interiore, da due colpi di fucile, che risuonano e riecheggiano più volte, sospinti da una parte all’altra delle due vallate, una di fronte all’altra. E insieme all’amico, valuta come l’intervento dell’uomo, quando decreta trasformazioni che vanno contro la tradizione delle cose, sia deleterio per il vivere civile. Ogni trasformazione imposta, specie se non valutata correttamente, genera contrasti, lede interessi, e ne favorisce altri; ecco, fa notare Antoneddu, cosa ha causato la nuova legge, dissidi e colpi di fucile. E qualche morto. I pastori non più liberi di circolare dappertutto dove non creassero danni agli altri, un restringere pesantemente il loro campo di azione, in nome di un non meglio definito bisogno di progresso rurale. Un recintare pesantemente territori, e sottrarli ad attività millenarie, uno stravolgere vita e natura, non può definirsi ricerca di progresso, semmai volontà di generare contrasti. Chi ha deciso quella legge, certo non ha considerato che se si stravolgono consuetudini acquisite, qualcuno soffrirà, e si ribellerà, del resto cosa si potrebbero aspettare di diverso da un popolo vessato e persino deriso, che non può essere assimilato a nessun altro? Un popolo che ha come unica arma a disposizione la rivolta. Trasferire esperienze continentali in una conformazione particolare come il territorio isolano, ha creato inutili scompensi; perché chi viene in sardegna, deve imporre le sue regole? Perché non ci lasciano decidere da soli, quale è il nostro bene? E la risposta viene spontanea, gli invasori hanno bisogno di certificare proprietà, ecco il loro vero scopo, per imporre nuove tassazioni, che affameranno ancora di più questo popolo disgraziato. E allora, ancora una volta, la povera gente, sarà costretta a ribellarsi. Recintare questa vallata è stato un atto ingiusto, e le regole dettate sono tassative: pena di morte a chi distrugge le recinzioni. Per la verità Antoneddu ha cercato di mettersi d’accordo col padrone della vallata, ma costui, asserendo che avrebbe dovuto pagare più tasse, triplicò le pretese per poter concedere a pascolo quel territorio, e successivi tentativi verso altri padroni, che nel frattempo avevano recintato dappertutto, ebbe le stesse, identiche risposte. Ma Gavino, in possesso di una disposizione naturale a mettere tutto in dubbio, a cercare soluzioni anche in presenza di steccati pesantemente costruiti, non si arrende all’evidenza, e decide di parlare con un avvocato. Il giorno dopo i due, a cavallo, si recano ad un paese dove esercita un avvocato, che ha funzioni anche di notaio, vuole vederci chiaro su cosa prescrive effettivamente il testo legislativo, e accertare se esistono soluzioni al problema. Viene prospettata loro una soluzione che mette i due in vantaggio sostanziale verso l’effettivo padrone del territorio. Se pure recintata, la vallata può essere violata, per il fatto che esiste una disposizione che obbliga chi recinta i terreni, a impiantare quattro mila piante di ulivo. Ricevono anche l’informazione su dove trovare quelle piante, e due giorni dopo, fatti accorrere i dipendenti della sua società, con Jacques in testa, e le piante di ulivo a disposizione, una ventina di persone e i due carretti, arrivano a pochi passi dalla vallata. Antoneddu fa entrare il suo gregge. La notte è illuminata dalla luna piena, e quella miriade di persone si danno da fare e impiantano tutti gli ulivi. Il giorno successivo, il proprietario del terreno, venuto a conoscenza dell’azione del gruppo di Gavino, si lamenta, convinto che sia dalla parte della ragione, e avvisa Antoneddu che, se non avesse abbandonato immediatamente la vallata, avrebbe richiesto l’intervento dei soldati. Si cerca di trovare una soluzione, e il pastore propone di trasformare il contratto e dilazionarlo per un centinaio di anni, alle stesse condizioni contrattuali finora in atto, forte del fatto che è stato recintato un terreno senza che siano state soddisfatte tutte le regole. Naturalmente il proprietario non acconsente e il giorno dopo, di buon mattino, una pattuglia di soldati entra nella vallata per disperdere gli intrusi, vengono sparati anche dei colpi di fucile, e due operai, dipendenti di Gavino restano feriti, gli altri, irritati da tale fatto, si scagliano sui soldati, con le vanghe che hanno a disposizione, e li massacrano di colpi, il comandante resta ucciso da un accidentale colpo di fucile, che uno degli operai gli stava sottraendo. La sera stessa, una cinquantina di soldati fanno irruzione nella vallata, e il capitano che li comanda, interroga tutti, vuole sapere l’esatta dinamica dei fatti, e alla fine, dato che non è la prima volta che deve sedare dissidi per quella legge che così tanti problemi ha creato, arresta chi ha sparato al soldato, prende le generalità di tutti, e, formalmente, dà ragione ad Antoneddu, che per ora potrà pascolare il suo gregge, in attesa di una decisione del giudice. La notizia si diffonde in poco tempo, in tutto il territorio circostante, e i giorni successivi, i pastori si mobilitano e distruggono la totalità delle recinzioni, dei terreni dove non siano stati impiantati gli ulivi. E si scopre che chi, tra i pastori, aveva diritto di abbeveraggio delle greggi, può entrare impunemente nei terreni e distruggere i muri a secco che ne delimitano la proprietà. La sardegna si infiamma improvvisamente, dappertutto è un susseguirsi di scontri e vendette, sono presi di mira soprattutto i feudatari che più di ogni altro avevano recintato enormi territori abusivamente, uno di loro, un barone, resta ucciso, insieme ad una miriade di persone, e soldati. E dove non ci sono morti, da entrambe le parti, restano ferite, contuse, e malconce, una miriade di persone. Ecco a cosa ha portato una legge che non ha tenuto conto delle consuetudini, la voglia di prevaricare diritti altrui, messa in atto dai più ricchi, ha causato più di un morto, e innumerevoli feriti, e disgregato quella sorta di fittizia pace sociale sempre traballante, ma duratura. Quando un potente, un ricco, non tiene conto delle necessità essenziali della povera gente, e la sua durezza di cuore si spinge a quei livelli, non può certo pretendere che questi non si ribelli. Le ingiustizie causano dissidi, prevaricare comporta vendetta, specie se viene tolto il sostentamento alla gente, e la vendetta porta morte. E morte porta morte, non può essere altrimenti, in questa terra aspra, che predilige i toni forti e drammatici. E il potere impegnato a predicare che bisogna ristabilire l’ordine sociale, e anche lui si dedica a prevaricare, a sedare con la forza giuste rivendicazioni; in una società, in qualunque società, deve essere garantito il diritto ad una vita dignitosa, a chi viene tolta la sua unica fonte di sostentamento, deve essere concessa una via di scampo, se si sente minacciato nei suoi diritti essenziali, reagirà facendo azioni inconsulte, che moralmente, nessun tribunale, potrà mai condannare. Moralmente. Ma alla prova dei fatti, molti vengono condannati, a molte famiglie vengono espropriate le case, le greggi, e la speranza di vivere in una società normale. Ma di normale, in una nazione, quella sarda, così pesantemente assoggettata, non c’è nulla, nemmeno l’apparenza. I diritti, se pure riconosciuti dalla legge, vengono calpestati, e, come al solito, chi ne subisce le conseguenze, sono sempre i poveri, i diseredati, e chi non ha giovato di una istruzione, che dovrebbe essere un diritto, ma che condizioni sociali miserevoli impediscono. Lo stesso Gavino, impegnato già dall’età di sette anni a dare una mano al genitore, avrebbe preferito che qualcuno gli avesse insegnato almeno a scrivere e leggere, da bambino. Rimediò all’età di vent’anni, ma solo per la fortuita coincidenza di aver conosciuto Jacques, che gli ha fatto da maestro elementare. Molto, troppo elementare. Lo sbrigativo processo verso l’operaio di Gavino, ha decretato che non ci fu intenzionalità nell’uccisione del soldato, e i mesi che ha trascorso in carcere, sono sufficienti ad estinguerne la pena, la sua famiglia ha vissuto comunque, come se lui, nel periodo di detenzione, stesse lavorando per la società, e non sono mancate le risorse a quella povera gente, fornite da Gavino e Jacques. Antoneddu ha visto riconosciuto, dallo stesso tribunale, il suo diritto a sopravvivere, ed ha sottoscritto un contratto centenario, alle stesse condizioni precedenti, che lo mette nelle condizioni di poter pensare al futuro con una certa tranquillità. Certo che la parola non rispecchia esattamente il senso usuale che le viene attribuita, ma è soddisfatto comunque. La legge delle chiudende, ha generato innumerevoli dissidi, e i feudatari, in più di un caso, hanno prevaricato e limitato pesantemente la libertà di circolazione delle greggi, e i loro immensi appezzamenti di terreni, hanno inglobato fonti di approvvigionamento d’acqua da millenni a disposizione dei poveri pastori, qualcuno di loro, troppo combattivo riguardo ai suoi diritti, è stato ucciso. E loro, naturalmente, i baroni, non sono stati puniti. La sardegna versa sempre in condizioni disumane, troppo diversa è la condizione dei derelitti, se rapportata a quel mezzo esercito di nulla facenti, che campano agiatamente, alle spalle dei più poveri; le strade sono sempre sconnesse e polverose, il piemonte non ha nessuna voglia di migliorare la condizione di quest’isola; non ha risorse da spendere, ma impone sempre nuove, insopportabili tasse; di bonificare territori paludosi nemmeno se ne parla, e le zanzare imperano, come sempre. E la malaria continua a fare innumerevoli vittime innocenti, molte giovani vittime, morti che avrebbero potuti essere evitati agevolmente. E la gente, la povera gente, ad arrancare e trascinarsi pesantemente, oppressa da situazioni insostenibili, sempre peggiori. Del resto, una società nel cui tessuto finanziario, non vengono immesse risorse, ma espropriata pesantemente del frutto del proprio lavoro, non può mai sperare di affrancarsi da condizioni economiche disastrose. E i governati, là, a torino, sono insensibili alle rivendicazioni della povera gente, del resto non vengono mai a contatto con il popolo, ma solo saltuariamente con la borghesia isolana, che naturalmente rivendica concessioni per se stessa, ma mai per la gente. Una miriade di pastori zoticoni, di contadini derelitti, che non riesce mai a far sentire la propria voce, del resto, cosa potrebbe mai pretendere? Ma un politico, un sovrano, o un amministratore, non deve restare rintanato nelle sue stanze dorate, ma venire a contatto con la realtà dei fatti. Ma non deve nemmeno pretendere che lo zoticone, il villano, sia così stupido da non capire che lo stanno espropriando di diritti essenziali e universali, e che prima o poi si ribellerà di nuovo, con la certezza, però, che stavolta andrà deciso per la sua meta, e non si fermerà, come durante la rivolta a cui ha partecipato Gavino, a domandarsi se un nemico debba essere risparmiato. Loro, i potenti, una volta sedata la rivolta, hanno torturato e costruito capestri, e se il potere ha dimostrato di essere inflessibile, nonostante abbia promesso il contrario, ora, la gente, se dovessero ripetersi le stesse condizioni, non esiterà a macchiarsi di abbondante sangue straniero. E quanti pastori, espropriati del diritto di vivere con dignità, hanno scelto la strada del banditismo, e certo lontano dalla sardegna, qualcuno giudicherà i suoi abitanti rissosi e fuorilegge, senza avere conoscenza delle cause che hanno generato tutto ciò. E chi accuserà, d’ora in poi, che il Sardo non ha le capacità di progredire autonomamente, dovrà valutare il fatto che non si può depredare continuamente, per secoli, un popolo, senza concedere nulla in cambio, che una terra che viene trattata da colonia, non possiede obiettivamente alcuna possibilità di auto determinazione, che non può in eterno subire leggi imposte, contrarie alle proprie tradizioni e usanze. Leggi formulate da teoreti ignoranti e pressappochisti, che dall’alto del loro sapere, non si degnano nemmeno di visitare gli scenari che dovrebbero essere condizionati dalle loro stesse risoluzioni. Un lasciare colpevolmente nell’ignioranza tutto un popolo, per non voler spendere risorse per aprire scuole, e le stesse disagiatissime strade, con la loro penosa trascuratezza, non favoriscono contatti nemmeno tra due paesi vicini che dovrebbero collegare. La stessa legge delle chiudende, istituita per dare un impulso all’agricoltura, è stata estremamente deleteria. I terreni sono restati comunque destinati alla pastorizia, solo che i proprietari hanno preteso sempre maggiori canoni di affitto, arricchendosi sempre più, e generando ancora più povertà e indigenza. E il bisogno di riscatto sociale, di gente che non ha più nulla da perdere, si può attuare solo in un modo: rischiare, una volta nella vita, e sequestrare qualche ricco, incamerare il riscatto, e sperare di farla franca, e costruirsi così un futuro decente, rischiare una volta per non essere più considerato servo. Oppure darsi alla latitanza, e vivere di rapine. Cosa mai dovrebbe pensare una persona, alla quale non viene data alcuna possibilità di sopravvivenza? I due soci, Borangiu e Gavino, intanto proseguono nelle varie attività che hanno scelto, e gli affari vanno egregiamente, ai ricchi va sempre tutto bene. Hanno denari in abbondanza, e decidono di investire una parte di essi acquisendo un rilevante territorio ai piedi della loro montagna; hanno fatto un ottimo affare, perché quel territorio, è stato acquisito dal vecchio proprietario, appena qualche anno fa, sfruttando la legge delle chiudende, e se ne può disfare a cuor leggero, avendo altre proprietà a disposizione, una legge che ha favorito unicamente i ricchi, e chi già possedeva territori o risorse finanziarie. Quel terreno servirà ai loro figli, per ora lo mettono a disposizione del figlio di Antoneddu, Efis, che ha quasi vent’anni, ed è coetaneo di Luisa ed Isidoro. Ma lui non seguirà esattamente le orme del genitore, ha deciso di allevare cavalli. Intanto Luisa ed Isidoro, frequentano delle scuole elitarie, entrambi in continente. La ragazza ha deciso che la sua vita sarà dedicata all’insegniamento, mentre Isidoro aspira a diventare ingegnere.
Una scassatissima nave vede, qualche anno dopo, tra i suoi passeggeri, i due soci, con le rispettive mogli, in viaggio verso il continente, per affari. Devono incontrare alcuni mobilieri, per stabilire una linea commerciale comune, la montagna a disposizione dei due, è così estesa, che fornisce legname in continuazione, e potrebbe essere sfruttata ancora più intensamente. Ma la parola sfruttare non è esattamente quella giusta, perché le pratiche che adottano i due sono quanto mai corrette, mai si permetterebbero di abbattere alberi, in assenza di piantine vicine destinate a prenderne il posto, anzi, in qualche area abbastanza spoglia, hanno messo a dimora un’infinità di alberelli, e il risultato più evidente dopo il taglio delle piante, è che invece di rendere spoglia la montagna, questa appare comunque fittamente alberata. E il sottobosco quasi non esiste, messo a dura prova dalle capre. Hanno deciso di costruire, a mezza costa, due grandi case, una per ciascuna famiglia, più un locale da adibire a segheria, ed hanno l’esigenza di disboscare una vasta area, sia per la costruzione delle case, sia perché attorno ad esse vogliono sistemare alcune migliaia di piante di ulivi, più che altro per diversificare il reddito. E avendo così tanta disponibilità di legname, vorrebbero intensificarne il taglio, almeno fino a quando non sarà sistemata quella vasta area. Nonostante i loro operai lavorino a ritmo serrato, esistono ancora vaste aree di montagna, non ancora intaccate. La montagna, vista da lontano, appare come un immenso bosco, e si intuisce che le piante sono di grandi dimensioni, e perciò adatte per la costruzione di mobili, o altro. La segheria sarà realizzata proprio per quello scopo, fornire pregiato materiale semi lavorato, a vari artigiani mobilieri. Vari tentativi dei due per invogliare qualche volenteroso della zona, a mettere su una grande falegnameria, si sono rivelati vani. Qualche giorno dopo sono a biella, davanti ai mobilieri, si accorgono subito che questi vorrebbero firmare contratti vantaggiosi solo per loro, ma non sanno con chi hanno a che fare. Devono ricredersi riguardo a quello che probabilmente hanno pensato inizialmente, e cioè, riguardo al fatto che stanno trattando con isolani ignoranti, disposti ad accettare qualunque prezzo, pur di concludere l’affare. L’opinione diffusa, in continente, è che la situazione disagiata in cui versa la sardegna, è drammatica, e ciò è vero, ma solo se riferita alla povera gente; chi possiede territori, qui, è forse più benestante di loro stessi. Concludono il contratto stabilendo cifre ben al di sopra di quello che avrebbero sperato. I due soci, firmato il vantaggioso contratto, si mettono in viaggio verso bologna, dovranno partecipare alla grande festa di laurea dei loro due figli. Luisa e Isidoro, quando arrivano i genitori, corrono loro incontro, erano tanto tempo che non avevano avuto modo di vedersi. Per Gavino l’emozione è forte, la fisionomia del figlio, è così simile a quella del suo omonimo, il suo bisnonno, che sembra di vedere lui stesso. Quasi un aiaiu redivivo. Due gocce d’acqua, si direbbe a prima vista. E Luisa, alta e slanciata, si è fatta una splendida ragazza, dalla bellezza persino troppo appariscente, ma dai modi raffinati. Quando la cerimonia che decreta che i due ragazzi sono finalmente laureati, il gruppetto si avvia verso la casa che i due ragazzi hanno preso in affitto, con altri due compagni di università. Salta subito agli occhi che Isidoro e Luisa formano una coppia, e i loro genitori possono essere più che soddisfatti della situazione. Una coppia, però, non molto ben assortita, riguardo ai modi di pensare. Durante il pranzo, i genitori si accorgono che, mentre i ragionamenti di Luisa sono abbastanza conformisti, quelli di Isidoro sono quanto meno poco ossequiosi verso il sistema. Approfondendo i vari ragionamenti, risulta evidente che il ragazzo ha atteggiamenti mentali da autentico giacobino. Ciò fa piacere soprattutto a Jacques, che rivede se stesso durante la sua gioventù. I genitori di Isidoro cercano di stemperare il suo carattere sovversivo, facendogli notare che, come ingegnere, dovrà essere posato negli atteggiamenti e nei giudizi, il ragazzo afferma che sente dentro di se un innato bisogno di giustizia: dappertutto, e non solo in sardegna, il potere è arrogante e invasivo, e spetta alla gente far si che venga ridimensionato. Gavino, pur essendo abbastanza preoccupato per gli atteggiamenti del figlio, non può certo biasimarlo, in quanto anche lui ha trascorso delle fasi molto movimentate, e inconsciamente approva gli indirizzi politici e sociali del figlio, e il fatto stesso di avere a fianco una persona molto più equilibrata di lui, Luisa, non può che essere un aspetto positivo. La ragazza dimostra di essere molto intelligente, mai banale, un vero splendore sotto tutti i punti di vista. E, insieme ad Isidoro, dimostrano di aver programmato per bene la loro vita, non hanno intenzione di rientrare in sardegna, ma hanno deciso di costruirsi una vita dove troveranno opportunità di lavoro. Non trovano l’approvazione dei genitori, che, avendo investito risorse per i loro studi, ritengono che le loro competenze debbano essere messe a disposizione nella terra natale. Ma i due sono irremovibili, per ora la strategia riguardante il breve e medio termine è decisa, ma non mettono alcun paletto per il futuro, potrebbe anche succedere che sentano, in seguito, il bisogno di rientrare nell’isola.

Figlius, figlius nostus, sambini de is nostus becius aiaius, poita abarrais attesu de sa terra nosta? Pota non beneis a gherrai po sa genti nosta? 



























I quattro genitori, rientrano in sardegna con uno stato d’animo che non si può certo definire soddisfatto, i loro figli hanno scelto una strada non condivisa da loro stessi. Dà fastidio il fatto che le loro competenze potrebbero essere messe a disposizione delle popolazioni Sarde, e invece chi ne usufruirà, non saranno certo loro. Ma ciascuno ha il diritto di scegliersi la propria vita, quando possibile, e loro sono tra i pochi a cui è stata data questa opportunità. Possono ritenersi, se non completamente soddisfatti, almeno moderatamente tranquilli, i loro figli formano una bella coppia, ed hanno sicuramente le idee chiare, ma preoccupa un po’ l’anarchismo di Isidoro. Se è vero, che dimostra lo stesso carattere del genitore, c’è da sperare che sia dotato anche di sufficiente capacità di discernimento, le condizioni che hanno fatto della vita del genitore un continuo districarsi da situazioni pericolose, non possono essere equiparabili alle sue, ma almeno ha il vantaggio di avere al fianco una donna dalla grande personalità, che riuscirà a moderarne gli impulsi. Una volta sbarcati in sardegna, il viaggio verso casa, li vede attraversare territori abbastanza turbolenti, e in nave hanno appreso alcune notizie poco rassicuranti, riguardo alla situazione isolana, sempre poco tranquillizzante, e in continuo subbuglio. Un popolo predisposto alle rivolte estemporanee, ma mai con l’intelligenza necessaria per formare una reale strategia di intervento, man mano che si presentano le più ghiotte opportunità di auto determinarsi. Come se la personalità del popolo Sardo abbia una specie di buco nero, che non gli consente di valutare correttamente le varie situazioni favorevoli che è riuscito a crearsi; come se si accontenti di dimostrare a se stesso, che potrebbe ambire ad una reale autonomia amministrativa, stampare moneta in maniera autonoma, auto determinarsi, ma risulta evidente che, quando la meta sembra raggiunta, e basterebbe un altro piccolo passo, inspiegabilmente rinuncia ad affondare il colpo. E anche al momento attuale, secondo i racconti sentiti in nave, ancora una volta si presentano condizioni favorevoli per una reale rivolta. La legge delle chiudende ha generato nervosismo diffuso tra la gente, è chiaro che il potere, anche in questo caso, ha fatto scelte indirizzate al bene dei più abbienti, mettendo ancora una volta in crisi la popolazione povera. Le notizie di rivolte, sparatorie e uccisioni, sono all’ordine del giorno, tutto il territorio a nord della tenuta dei due soci è in fiamme, la situazione attualmente è incontrollabile per lo stesso esercito, che è costretto a più di uno scontro a fuoco con i rivoltosi. Ma sono iniziative portate avanti da poche persone, e se migliaia di pastori e piccoli contadini sono alla disperazione, non hanno modo di unirsi, anche perché i collegamenti sono irrimediabilmente fatiscenti. E forse questa è una strategia del potere, impedire la circolazione di idee, il reale contatto tra la gente, quattro zoticoni non fanno paura, ma se si unissero alle migliaia di persone nelle loro stesse condizioni, potrebbero diventare un problema serio. E Gavino ricorda perfettamente il suo antico viaggio a casteddu, quando il viceré fu costretto ad abbandonare l’isola, ricorda come se fosse oggi, la gente dei vari quartieri cittadini, impegnata a demolire i pesanti portoni, eretti con l’unico scopo di tenere separata la gente. La gente unita, la folla vociante, e armata, seppure solo di bastoni, fa paura al potere, e certo la sua condizione non migliora, quando vede che chi è delegato a difenderlo, i militari e le guardie, non hanno troppo interesse a farlo, perché appartenenti essi stessi al popolo. Certo si chiederanno perché, gente pur pagata da loro, debba scagliarsi verso la popolazione, che potrebbe avere al suo interno, addirittura parenti e amici, e capita abbastanza spesso che gli ordini dati, vengono eseguiti in maniera poco decisa, o blanda. Quando il potere perde l’incondizionato appoggio di chi lo deve difendere, ha ben ragione di temere per la sua sorte. E infatti, alcuni avvenimenti derivati dalla assurda legge delle chiudende, ha visto l’uccisione, oltre che di poveri disgraziati appartenenti al popolo, anche le morti di alcuni soldati. E anche loro, spesso andati a sedare rivolte, si accorgono che i maggiori torti sono di chi ha recintato abusivamente ampi tratti di territori, contravvenendo ad alcune regole tassative, come per esempio il fatto di aver rese inaccessibili strade pubbliche, fonti idriche e abbeveratoi. Sanno perfettamente che la gente, in quei casi, ha perfettamente ragione di demolire le recinzioni, ma gli ordini superiori, in genere, vanno a favore dei latifondisti. Ed è capitato anche che, trovando in fragranza di reato, alcuni pastori intenti a demolire dei muri a secco, e sapendo che per quel reato è prevista la pena di morte, hanno fatto di tutto per agevolare, o non impedire, la loro fuga. E quando i loro comandanti, non conoscendo le generalità degli indiziati, chiedevano aiuto ai soldati per conoscere nomi e cognomi, questi non fornivano mai notizie utili. Sono stati recintati anche dei terreni che storicamente erano a disposizione dei pastori, territori collettivi, pubblici, e anche in quei casi sono avvenuti dissidi sanguinosi. E la situazione generale, se nelle campagne è letteralmente esplosiva, nelle città non è migliore. Alcuni paesi e città, con lo spettro della fame davanti agli occhi, si sono ribellati, dappertutto è penuria di pane e di grano, la gente è esasperata di come è stata sempre trattata, ma ora è evidente il fatto che non esistono alimenti a sufficienza di cui nutrirsi. Eppure, anche nelle città, una situazione così esplosiva, ha portato solo ad occasionali sommosse, non seguite da alcunché. Ai quattro appare evidente che la disparità di trattamento a cui sono sottoposte le popolazioni continentali, e quelle Sarde, è troppo evidente, per non dare adito a certezze: la sardegna è, a tutti gli effetti, una colonia dei sovrani Piemontesi, nonostante il regno porti il nome di regno di sardegna. 




Qualche anno dopo nasce il secondo figlio di Gavino e Greca, gli viene imposto il nome di Franciscu. Il bimbo cresce a contatto con la natura, e se l’aspetto di Isidoro è stupefacentemente simile al suo bisnonno, che portava il suo stesso nome, Franciscu gli assomiglia caratterialmente; già da bambino dimostra intelligenza e curiosità, sempre a rovistare dappertutto, a scoprire il mondo, e ragionare come un ometto. Sparisce per intere mattinate, e il genitore, un giorno, lo segue, vuole scoprire come trascorre il tempo il ragazzino, che, non avendo amici con cui giocare, fa del contatto con la natura il suo passatempo preferito. E lo vede percorrere una stradetta interna, in direzione della sommità di una collina, sovrastata dalla montagna dei due soci. Una volta giunto in cima, il ragazzino si inginocchia e, aiutandosi con alcuni piccoli attrezzi che aveva nascosto, smuove terra e pietre, e sistema degli oggetti in un sacco di juta. All’ora di pranzo, rientra a casa, con quel fardello più grande di lui, e nasconde quegli oggetti in un capanno a ridosso della casa di abitazione. Dopo pranzo è la solita storia, Gavino lo vede dirigersi, ancora una volta, verso la collina, e decide che deve scoprire quali oggetti attirano l’attenzione di suo figlio. E non li trova subito, tanto bene sono nascosti, ma alla fine, nota un mucchietto di oggetti, in un angolo del capanno. La sorpresa è grande quando vede un’infinità di piccoli oggetti, per lo più vasellame e piccoli attrezzi, e una cospicua quantità di monete, per lo più sesterzi, antiche monete romane. Che lui sappia, i Romani non sono mai riusciti, per quanti tentativi abbiamo fatto, ad affermare il loro dominio su queste montagne, ricacciati continuamente indietro da un popolo, evidentemente più combattivo di loro. Pensa che quelle monete siano derivate da una pratica adottata ancora adesso, chiamata bardana: delle scorrerie veloci verso territori pianeggianti, con lo scopo di depredare quelle popolazioni, con rapine e furti, pratica che anche lui ha adottato in passato.

Non può esistere altra ipotesi, e il giorno dopo si dirige, a cavallo, verso nugoro, con l’intenzione di mostrare quei reperti ad un conoscente, che si interessa di oggetti antichi, e al quale aveva venduto in passato i frutti delle sue bardane. Sebbene questi non sembri dare eccessivo risalto a quegli oggetti, capisce che è fortemente interessato all’acquisto, e discutono sul prezzo, è certo che avrebbe potuto ricavare una consistente somma di denaro, ben al di là delle più rosee previsioni, così decide di non accettare i denari offerti, e torna verso casa, sapendo di avere tra le mani un tesoro imprevisto e imprevedibile, tutto per opera della curiosità di suo figlio. Il giorno stesso fa un sopralluogo, con Borangiu, armati di attrezzi da scavo, e trovano un’infinità di oggetti, molti dei quali, evidentemente antecedenti al periodo romanico. Oggetti di terracotta, dei bronzetti rappresentanti figure nuragiche, una dea madre scolpita su pietra, che riconosce per averla sentita descrivere dai cantadores, oltre che monete di vari periodi storici, alcuni pugnali e monili che sembrerebbero possedere un certo valore. Il giorno stesso, due loro operai sono impegnati a scavare, e, conficcando uno spiedo per terra, localizzano alcune tombe, potrebbero essere antichissime. Scavano, ne asportano i pesanti coperchi in pietra, e in ognuna di esse, e a ridosso, trovano innumerevoli oggetti perfettamente conservati, e integri, a differenza del vasellame rinvenuto in precedenza, per lo più rotto, ma ricomponibile. Per settimane i due operai sono impegnati nello scavo di ampie zone circostanti, e, sempre aiutandosi con lo spiedo, localizzano altre tombe e costruzioni. Pensano che alla sommità della collina possano trovarsi i resti di un ipotetico nuraghe, ma devono recedere dall’idea, nonostante tutte le colline circostanti, nella loro sommità, ne abbiano uno, più o meno evidente. Niente di tutto ciò, i quattro improvvisati archeologi, invece che il nuraghe, rinvengono i resti di quella che sembrerebbe l’abitazione principale di quello che ipotizzano sia un piccolo villaggio. O forse un luogo delegato a cerimonie religiose. Si impegnano a scavare attorno a quei resti, e le sorprese non mancano nemmeno là. In una nicchia ricavata all’interno di un grande blocco di trachite, certo proveniente da molto lontano, trovano una statua in bronzo con ampi inserti in argento e qualche luccicante spazio in oro, di dimensioni superiori al solito, dalla fattura pressoché perfetta. E trovano innumerevoli oggetti, armi per lo più, frecce, lance e coltelli la cui parte tagliente è fatta da quella risorsa sarda particolarissima, oggetto di commercio fin dalla preistoria, l’ossidiana. Sono appena all’inizio della loro ispezione, che già hanno messo da parte innumerevoli oggetti, certo di grande valore. E nessuno dovrà sapere della scoperta, gli invasori, impegnati continuamente a sottrarre risorse, certo non lascerebbero tra le loro mani, oggetti di così grande valore. Gli scavi durano anni, e il piccolo Franciscu manca raramente a quegli interventi, dimostrando un intuito particolare, quando si tratta di scegliere il punto in cui scavare. Il vero archeologo è lui, quello che ha intuito, pur con la sua innocenza, che quei reperti, hanno grande valore. Qualche anno dopo è lui stesso che scopre, più a valle, una cavità completamente ricoperta di terra, che appare già dai primi scavi, come un pozzo sacro costruito con cura, le pietre, anche esse in trachite, perfettamente squadrate, con gli spazi tra una pietra e l’altra, quasi inesistenti, è una costruzione dalla raffinatissima fattura. Gioco forza i due uomini, devono necessariamente informarsi su una materia che non avrebbero mai pensato di dover considerare, l’archeologia e la storia millenaria della sardegna. Con loro stesso stupore, un giorno, si trovano a dover acquistare, dopo una lunga cavalcata verso torres, dei libri che trattano quegli argomenti. In uno di questi libri si ipotizza che esista in sardegna, una figura, non si sa se in bronzo o in pietra, o in metallo pregiato, una statua che dovrebbe essere unica, che accompagna le innumerevoli raffigurazioni della dea madre. A quella ipotetica statua viene dato il nome di sardus pater, e se veramente fosse un pezzo unico, il suo valore sarebbe inestimabile. E tra le strane teorie che accompagnano quella figura, vengono evidenziati, con disegni, qualche probabile conformazione che potrebbe avere un simile reperto. E uno di questi disegni è incredibilmente simile alla statua preziosa rinvenuta. I due sono certi di avere tra le mani il più importante oggetto presente nell’isola, devono decidere cosa farne, se conservarlo e custodirlo gelosamente, o alienarlo e ricavarne un immenso patrimonio monetario. Sanno benissimo che, in quello stato di abbandono in cui versa attualmente l’isola, con la fame e la povertà che la fanno da padrona, con i soldi ricavati potrebbero comprare un’intera città, tanto è grande il valore ipotizzato per quel pezzo unico in tutto il pianeta. Decidono di tenerlo per sé, per ora. E se quei libri sono stati acquistati per confermare certezze, dai due uomini, chi veramente ne può usufruire appieno, è il piccolo Franciscu, che ormai ha imparato a leggere e scrivere. Potrebbe riferire frase per frase, il loro contenuto, e in cuor suo pensa, che da grande, gli piacerebbe dedicarsi alla ricerca di antichi reperti. Sa benissimo, per averlo letto sui libri, che si ipotizza che la sua terra era abitata ben più di cento cinquanta mila anni fa, un periodo che i libri definiscono paleolitico inferiore, e si ha notizia che quel primitivo popolo, abbia lasciato delle testimonianze molto più raffinate di quelle rinvenute altrove. E lo affascina il popolo, apparso ben dopo quella data, dei nuragici, che tante testimonianze hanno lasciato, sia in termine di reperti, che di costruzioni, tanto che si potrebbe ipotizzare persino la loro organizzazione sociale. Lo affascina conoscere quali comportamenti adottassero verso entità superiori, verso l’acqua e il sole, la pioggia o il vento, sa però per certo, che la maggiore aspirazione di quel popolo era crescere di numero; infatti molte sono le espressioni lasciate riguardo alla fertilità, alla rappresentazione di simboli sessuali di entrambi i generi, lui stesso ha trovato un bronzetto raffigurante una donna incinta, e certo non è il solo, anche le innumerevoli dee madri rinvenute, certificano che quella era un’esigenza fondamentale. 




I Piemontesi, per una volta, per la prima volta, decidono che sia arrivato il momento per fare qualcosa per la loro colonia, ma come al solito, le loro azioni verso una terra e una popolazione che non si sono mai degnati, né di capire, né di favorire in alcun modo, ancora una volta mettono in atto azioni maldestre. Metà secolo è alle porte, e sono in atto delle trasformazioni anche nell’isola. La prima, e socialmente più importante, riguarda il tentativo di un potere meno assolutistico del solito, di venire incontro alle esigenze della gente, viene concessa, anche se non abbastanza applicata, l’istruzione elementare, incentivate le produzioni minerarie, di cui la sardegna abbonda, viene costruita una strada degna di tale nome, che collega casteddu con la seconda città dell’isola, in ordine di importanza, torres, e infine si ha la abolizione formale, anche se non del tutto sostanziale, del feudalesimo. Ma è dopo la metà del secolo, che il potere mette ancora in evidenza il suo vero volto. Di pari passo con le vittoriose campagne militari che hanno decretato la nascita del regno d’italia, la sardegna viene costretta ancora a regredire dal punto di vista economico. E in situazioni simili, nulla deve destare stupore; quando si combattono guerre, qualcuno le dovrà pur finanziare. La storia insegna che raramente i ricchi e i potenti hanno finanziato guerre, anche se formalmente sembrerebbe così. Le guerre, in genere, sono finanziate da chi meno le auspica, la gente. La tassazione in questi anni è così forte che mette sul lastrico intere famiglie, alcune di loro hanno perso le case, e tutti i loro averi. Gli espropri sono all’ordine del giorno, si sa che in poco tempo lo stato esegue un esproprio ogni quattro abitanti, terreni, bestiame e case, finiscono nelle mani dello stato, o degli usurai. Una cifra impressionante e altamente significativa. Mai che avvenimenti risultassero a favore della gente, mai che la condizione dei Sardi migliorasse, una terra destinata a produrre ricchezza, e vedersela sfilare da sotto il naso, una terra destinata a fornire ottimi soldati, per la gloria del re d’italia. Si, perché un altro avvenimento percorre infausto le strade dell’isola: il regno di sardegna non esiste più, sostituito dal regno d’italia, e con esso è azzerata quel minimo di decisionalità locale che è stata garantita dai parlamenti Sardi, fin dai tempi della dominazione Spagnola. E se per secoli ha funzionato abbastanza bene, una specie di parlamento Sardo, ora l’isola ha perso quella specificità, e viene considerata semplicemente una delle tante regioni, assoggettate al monarca. Ancora una volta il Piemontese si è rivelato peggiore del dominatore storico della sardegna, lo Spagnolo. Ma il crimine più grande non è stato ancora commesso, come in una spirale maledetta che sale sempre più in alto, e mano a mano che sale, fa sempre maggiori danni. La gente è sempre più povera e sfiduciata, al cospetto di uno stato che reclama per sé, sempre maggiori privilegi, sull’onda dei successi militari, e l’esercito che occupa l’isola, diviene sempre più arrogante e onnipotente.

La sardegna miserevole, ha conosciuto la mano pesante del potere, la gente non ha più diritti, la monarchia sovrana spadroneggia, e le guerre finanziate dalla gente, le ha sottratto quella misera libertà che ancora possedeva. Una terra destinata a produrre ricchezza, e a lavorare e fornire soldati per la gloria del re. Ma quale gloria potrebbe essere definita tale, se lui se ne sta lontano dai pericoli, e ad affrontare le battaglie è sempre il povero?




E la mano pesante del potere, ora che può giovare di grandi consensi popolari derivati dalle vittoriose guerre che hanno unito tutta la penisola, si fa sempre più arrogante. Prospetta per la gente una nuova appartenenza alla grande nazione così costituita, e molti si sentono così condizionati dai nuovi avvenimenti, che quasi dimenticano che le conquiste porteranno giovamento solo ai benestanti. E i disegni dei sovrani, non sono ben capiti dalla gente, che si adagia ad un senso di soddisfazione che deriva dalla sua appartenenza ad una nazione vittoriosa, e non già perché le sue condizioni siano migliorate. Il solito metodo che funziona sempre: distrarre l’attenzione da problemi veramente importanti, e consegnare alla gente le solite invenzioni, nemmeno troppo fantasiose. E le guerre sono le invenzioni che funzionano meglio. Ma chi veramente sta male, non si può far condizionare da quelle favolette, e lotta perché leggi assurde siano azzerate, o almeno rese inefficaci. Il popolo della terza città più importante dell’isola, nugoro, costituito per lo più da pastori, insorge compatto, ancora una volta, contro abusi e imposizioni, e come in una sorta di risarcimento delle sofferenze che ha dovuto sopportare, a causa della legge delle chiudende, decide che bisogna tornare alla situazione precedente, decide che tutti i documenti che attestano le compravendite dei terreni recintati, debbano essere distrutti. Invade il palazzo comunale e appicca un colossale incendio, e di quei documenti, ora non resta che un allegro, gigantesco falò. Il palazzo è completamente distrutto, i fogli sono cenere, e niente più attesta la reale proprietà di quei terreni, e dal giorno successivo si riprende a demolire steccati e muri a secco. L’esempio di nugoro viene seguito da altri comuni, dappertutto si è riusciti a mettere in difficoltà le istituzioni, ed in qualche maniera, se non dappertutto, si è tornati alla condizione antecedente la messa in opera di quella disastrosa legge. Si è tornati a su connottu, la situazione conosciuta dai loro avi.

Un atra ia su poderi scipiada ca non esistidi milissa chi possada firmai su sentimentu de sa genti, s’omini vili abarrada attesu de is perigulus, ma candu sa genti adi ottntu s’arrexoni sua, e scabulada de manixiai is armas, fustis e furconis, e torrada a pigai su marroni e sa farci, su poteri vili si bindicada. 

Ancora una volta, il potere sappia che non esiste esercito, che può fermare la gente, quando essa sa di essere dalla parte della ragione, e sul momento della rivolta esso si tiene bene alla larga dai pericoli, ma quando il popolo ha ottenuto i suoi diritti, si adagia troppo presto, e torna alla sua solita vita, ed è allora che il potere vigliacco si vendica, quando la gente torna a guadagnarsi il pane, e ripone bastoni e forconi. E allora, i vigliacchi, decidono che molti di quelli che hanno infranto la legge, debbano morire.

E nuove contrarietà preparate per tutto un popolo, sono all’orizzonte. Una volta che la rivolta ha esaurito la sua carica dirompente, ancora si erigono patiboli e si affilano mannaie, per quei disgraziati. È la storia eterna di tutto un popolo, che non può essere contrastato quando dimostra di non volersi assoggettare, ma vigliaccamente viene azzerato nei suoi diritti, e nella vita di chi più si è esposto, quando ha deposto le armi. Con la dichiarazione che è stato istituito il regno d’italia, viene meno anche l’unica arma in possesso del popolo Sardo, di avere un minimo di decisionalità: è stato abolito il parlamento isolano, in essere fin dai primi tempi della dominazione spagnola. E se si vuole essere storicamente corretti, si può affermare che la decisionalità di tutto un popolo, era presente già nei periodi bui del medioevo, durante il periodo dei giudicati, e come se tantissimi secoli siano trascorsi invano, la nazione Sarda deve registrare ancora una volta un deleterio regresso anacronistico. Ma le nefandezze della dominazione non sono terminate con quella risoluzione, nei pensieri di chi è abituato a dominare si fa strada l’idea che ancora, tutto un popolo, non ha sofferto abbastanza. Chi governa ha pianificato il più grande crimine che sia mai stato commesso, contro un popolo che non chiede altro, che vivere in pace e in armonia con la natura. L’istinto di depredare beni che non appartengono a loro, ma a tutto un popolo, viene messo in atto con una programmazione così malefica, che definire barbara è limitativo. L’isola è afflitta da innumerevoli fattori che ne limitano pesantemente la capacità di sviluppo. Prima fra tutte la sua difficoltà nel commerciare, essendo un’isola, poi la colpevole decisione di lasciare tutto un popolo nelle condizioni di non poter progredire dal punto di vista culturale e scolastico, infatti qui l’analfabetismo è più una regola che un’eccezione, e poi le strade non si possono definire con tale nome, non consentono collegamenti che possano essere definiti agevoli, la malaria non è stata debellata, perché nessuno, mai, ha pensato di bonificare le innumerevoli paludi, disseminate dappertutto, la disparità di condizioni economiche tra ricchi e poveri, fa gridare forte contro l’ingiustizia, e il fatto ormai conclamato che ha sempre ricevuto immensamente meno di quanto ha dato, in termini economici, rendono evidente il fatto che potrebbe godere di uno sviluppo impensabile, solo se venissero riconosciuti diritti, e risorse, che non possono essere disattesi in eterno. Ma accanto a tutte queste condizioni sfavorevoli, esiste un grande pregio a disposizione dei Sardi, il suo ottimo clima, la sua stupefacente bellezza dei territori, dappertutto è uno sfavillare di colori, specie in primavera, e di aromi, e di paesaggi da favola. Ma anche questo, deve essere distrutto. Per giunta col progetto più criminale che l’isola abbia mai subito. È stato deciso, dal governo italiano, che quella ricchezza, deve essere azzerata. La criminale decisione è che la sardegna deve essere disboscata. C’è il progetto di costruire ferrovie, in continente, e il legno migliore per le traversine che collegano i binari, è la pregiata quercia sarda. Ancora una volta, risorse isolane verranno messe a disposizione di popolazioni estranee. Ancora una volta, pur appartenente alla stessa nazione, l’isola è una colonia di essa. E con la scusa che anche qui verrà costruito un breve tratto di ferrovia, si disbosca dappertutto, e la quasi totalità di quel pregiatissimo legname, verrà utilizzato nella penisola. Anno dopo anno il patrimonio boschivo sardo viene azzerato, e l’isola, per millenni ricoperta da immense foreste, visione gradevole alla vista, in qualche lustro di dissennata deforestazione, diventa un surreale ambiente innaturale. Ma per una volta, il pur rissoso e intransigente popolo Sardo, non si ribella a tale scempio, accontentandosi di lavorare per la società che sta desertificando tutta un’isola. Per una volta non ha capito che le misere paghe che gli operai ricevono per il duro lavoro da boscaioli, causano e causeranno danni immani. È in preparazione il periodo di stenti, peggiore di tutta la sua storia, periodo catastrofico di fame e malattie. Terminata la criminale opera di deforestazione, si torna alle problematiche condizioni di disagio economico del passato, il clima risente di quella pratica assurda, e anno dopo anno, diminuiscono persino le piogge. Quando si mette così pesantemente mano alla natura, è impensabile che questa non si vendichi in qualche maniera. Ora, veramente, si ha la certezza che gli storici avevano ragione, l’unico motivo valido che decretava che questa terra appartenesse al continente europeo, e non a quello africano, è venuto meno. In certe zone è evidente la tendenza alla desertificazione. 

Mammas e babbus gaballaus, illudius de su poderi strangiu, anti bendiu po dusu arrialis su spettu de is figlius, su strangiu un atra ia adi pigau chenze donai, famini, miseria, esproprius, filossera, usuraius, emigrazioni, siccidadi, sinsulu e malaria, e su pruiri, funti is meris de custa terra, disgratziada e lassada a sa sorti sua.

I decenni successivi sono caratterizzati da fame e miseria, comincia l’emigrazione verso altri lidi, soprattutto verso la nuova frontiera, l’america. Per una volta, dopo aver subito innumerevoli invasioni, saranno i Sardi, ad invadere tutto un continente: qui non si può più vivere.




In quel periodo di disperazione generale, trascorre la sua vita agiata Franciscu, che ormai è diventato un uomo, intervallata solo da due eventi luttuosi: la morte di entrambi i genitori: Gavino e Greca se ne sono andati, lasciandolo però nelle condizioni di poter decidere la sua vita come più gli aggrada. Già da tempo viene chiamato ingegnere, laurea conseguita nella università di torres, e si dedica al lavoro nella nuova frontiera dell’economia sarda: le miniere. Lavora per conto di una società mineraria francese, in una zona che quegli anni conosce una certa prosperità economica, nella zona sud occidentale dell’isola, zona vocata alla estrazione mineraria di carbone e argento. Una parvenza di nuova società si fa strada tra pastori e contadini, che abbandonano l’aria aperta dei campi, per lavorare nelle viscere della terra. Ma per Franciscu, che ama la vita a contatto della natura, il mestiere di ingegnere minerario è solo un pretesto per dimostrare che conduce una vita non troppo diversa da quella dei suoi simili, e in fondo non soffre di quella condizione, avendo scelto un mestiere che lo ha sempre attirato, sulle orme del fratello Isidoro. Ma potrebbe vivere senza lavorare, o meglio, lavorare nella sua tenuta, e ammirare ogni giorno il volto delle persone a lui più care: i due figli Ignazio e Vitalia, e quello della moglie Anna. È vero che un giorno alla settimana va a trovarli, nella casa circondata dai boschi e dagli ulivi, che suo padre ha costruito tra i monti della barbagia, ma è altrettanto vero che si sente di voler camminare al passo dei tempi, al passo di quell’illusione chiamata società industriale. Chissà perché si fa viva la smania di appartenere ad un tipo di società, che non fa altro che negare ogni valore ritenuto valido per millenni. Un valore che, pur tra mille sacrifici, ha consentito a decine di migliaia di persone, in questa terra bella e maledetta, di portare avanti un’esistenza a contatto con la natura. E la società industriale che preme sui destini dell’uomo, è quanto di più innaturale possa esistere sulla terra. Uno stravolgere la natura umana per cui siamo stati creati, un adottare pratiche che il cervello, se non fosse condizionato dalla smania del cosiddetto progresso, rifiuterebbe decisamente. Non è chiaro nemmeno a lui stesso, come mai abbia scelto di lavorare per altri, quando avrebbe potuto mandare avanti in prima persona la sua azienda enorme, senza alcuna preoccupazione economica. Forse in lui si è fatto strada il discutibile desiderio di voler camminare al passo coi tempi, partecipare ad un progetto di illusorio sviluppo innaturale, essere parte attiva, non più di una società in disfacimento, quella rurale, ma delle nuove frontiere che vengono proposte da persone che, almeno quanto i latifondisti, mirano unicamente a stare bene loro, e disinteressarsi dei problemi altrui. Ma forse è quello il vero motivo della scelta di Franciscu, rendersi disponibile per un reale progresso verso una nuova categoria di miserevole gente. Certo è che chi decide di scendere nelle viscere della terra, che nasconde innumerevoli pericoli e problematicità, non può aver trovato di meglio da fare. O forse la scelta è dettata da un bisogno di rendere i suoi figli responsabili, e concedere loro l’opportunità di dimostrare che possono gestire la sua azienda nascosta tra i monti della barbagia. In una società, sempre estremamente matriarcale, come quella sarda, la direzione della tenuta è appannaggio della moglie Anna, le decisioni importanti sugli indirizzi da imprimere, le prende lei in totale autonomia, ma la gestione pratica dell’azienda viene svolta dai figli Ignazio e Vitalia, coadiuvati dalla figlia di Borangiu, la vecchia Luisa, anziana, ma dai tratti che ricordano l’antica bellezza. Lei però si disinteressa abitualmente di quel grande territorio, in quanto è impegnata a portare avanti, insieme a suo marito Isidoro, fratello di Franciscu, quell’autentico gioiello di azienda che è diventata l’area pianeggiante acquistata a suo tempo da Borangiu e Gavino. Forti delle competenze di Efis, hanno messo su un allevamento di cavalli, che non lascia tempo a Luisa di interessarsi della gestione della grande montagna, e tutti portano avanti la loro vita senza problemi economici. Loro, si, ma la stragrande parte della popolazione isolana è afflitta da una crisi disastrosa, mai vista prima. Loro, pur gestendo un territorio molto minuto, se raffrontato con la grande montagna, hanno realizzato dei meccanismi di vendita invidiabili: la stragrande maggioranza dei cavalli, viene venduta a vari stati, che li utilizzano per i loro eserciti. Quindi Franciscu, che pure ambirebbe ad una vita tranquilla, immerso nella natura, vi rinuncia, per il bene dei suoi figli. Ci sarà tempo per tornare a quella vita che lo ha sempre appassionato, fin da bambino, quando scorrazzava per la montagna, alla ricerca di reperti archeologici, passione che non è mai scemata. E la preziosa e unica al mondo statuetta, che impersona il sardus pater, è sempre custodita da lui. Nella vita di ognuno esistono varie fasi, e certo quella opportunità si ripresenterà prepotente, quando, tra meno di una decina d’anni, avrà terminato il suo percorso lavorativo. Ma anche la sua funzione di ingegnere lo fa sentire importante comunque, nelle sue mani sono riposti i destini di tanti minatori. E quando, come è successo, alcuni di loro hanno vissuto esperienze drammatiche, per via di alcuni crolli, lo invogliano a dare il massimo in fase di progettazione, e pretendere dalla società, che vengano utilizzati materiali robusti, sovra dimensionati, per mettere in sicurezza le varie gallerie delle miniere. Ma la logica dei padroni, non è quella di sprecare energie finanziarie, per garantire un lavoro tranquillo a quella miriade di persone. Esse non vengono nemmeno considerate persone, sono dei numeri utili a garantire introiti alla società, niente più. E i dissapori che Franciscu ha generato, per via di quella che viene considerata una assurdità dal direttore della miniera, non lo mettono nelle condizioni di svolgere il suo lavoro nella maniera voluta. E allora, avendo molti anni di esperienza in fatto di progettazione delle varie gallerie, e non volendo generare inutili contrasti col direttore, i suoi progetti, in fatto di sicurezza, risultano ancora di più sovra dimensionati, avendo la certezza che verranno snelliti, sotto quel punto di vista. Ha un ottimo rapporto con le maestranze, ma la sua relazione con il direttore, è conflittuale. Più di una volta lo ha sfidato a licenziarlo, dato che non avrebbe consentito sostanziali modifiche ai suoi progetti. Non è mai successo che si arrivasse a tanto, in quanto, in cuor suo, il direttore, forse, apprezza il suo lavoro. Le logiche industriali sono improntate ad ottenere il massimo del profitto, a scapito persino della sicurezza sul lavoro, ma questo, Franciscu, non può accettarlo, e giudica quella persona come inadeguata a svolgere il compito assegnato. A chi viene delegata la gestione di una azienda così pericolosa, sotto il profilo della sicurezza sul lavoro, non deve prescindere da quel fattore, ma deve tenerlo bene a mente. Quando il direttore gli chiede di rispondere alla domanda su chi gli passi lo stipendio, lui risponde a muso duro che quei soldi vengono ricevuti, non dalla società proprietaria della miniera, ma dalla sua stessa terra, che mette quella società nelle condizioni di operare. Dal giorno nascono tra i due contrasti insanabili, troppo diversa è la visione della società e del lavoro, lui che non può prescindere dalla sua responsabilità verso i dipendenti, l’altro coinvolto in logiche di profitto e di carriera. Da quel giorno il Sardo gli dimostra continuamente il suo disprezzo, e la reazione verbale del direttore è che avrebbe fatto di tutto per licenziarlo. E anche i rapporti tra dirigenza, e minatori, divengono sempre più conflittuali, vengono avanzate richieste di una vita più umana per quella disgraziata categoria di lavoratori, ma non vengono nemmeno prese in considerazione, anzi, come per dimostrare che chi comanda in maniera esclusiva è il padronato, viene decretato che viene ridotto il tempo tra un turno e l’altro, di un’ora, cioè non più tre ore, ma due. E come per affermare la propria supremazia, il direttore rincara la dose, decidendo che l’orario di lavoro sarebbe variato, che quell’ora di riposo, doveva essere dedicata al lavoro. Da una richiesta di condizioni migliori, si era passati, in un solo giorno, a dover lavorare un’ora in più. Gli operai non possono accettare quell’atteggiamento arrogante, ed entrano in sciopero. Della delegazione che si confronta col padronato, fa parte anche Franciscu, e il rapporto conflittuale col direttore, quel giorno si acuisce ancora di più. I minatori hanno incrociato le braccia compatti, il radicalismo degli operai, in questi anni, è estremamente praticato, ad ogni abuso corrisponde uno sciopero, e in genere le maestranze ottengono che le loro richieste vengano accolte. Del resto le condizioni di vita degli operai, sono drammatiche, paghe troppo basse per condurre una vita decente, e condizioni sul lavoro estremamente penalizzanti: l’eterna lotta tra il ricco e il povero. Solo che il povero, storicamente sempre sconfitto, ora intravvede uno spiraglio per poter affermare diritti sacrosanti. La sardegna, nei primi anni del nuovo secolo, è infiammata da innumerevoli scioperi e rivendicazioni, che generalmente si concludono con gli immancabili morti, sempre e solo tra le fila operaie, e della povera gente. E non sono solo gli operai gli attori di quelle rivolte, no, molte di esse sono la logica reazione allo stato di miseria che è costretta a sopportare la povera gente, difesa a volte da personaggi colti. E agli scioperi non mancano mai le donne, che hanno imparato ad essere più combattive dei maschi, ora che anche a loro è data la possibilità di poter lavorare fuori casa. Quanti scioperi e sollevazioni per la penuria di grano e pane! Quante lotte per abbreviare la giornata lavorativa, stabilita in dodici ore giornaliere! Viene espropriato sistematicamente il diritto addirittura di poter nutrirsi e sopravvivere! La costruzione del nuovo tipo di società, quella industriale, che preme forte sulla vita delle persone, non promette nulla di buono. E se in ambienti ad economia rurale, pur essendo negati diritti fondamentali, non esiste il problema di potersi nutrire, in quelli a impronta industriale, viene negato persino quel diritto. Un recedere continuo da diritti acquisiti; se la società che si prefigura in quegli anni, fosse contrastata ancora dai dissidi e dalle rivendicazioni continue, non si potrebbe dire che il tipo di società che avanza, sia migliore e più progredita di quella contadina che si ha intenzione di abbandonare. Logiche di sfruttamento che non possono essere accettate. E allora scioperi e nuove rivendicazioni, sono all’ordine del giorno. La sardegna, è invasa da rivendicazioni e contrasti, e non mancano assalti popolari a negozi di generi alimentari, a uffici daziari, i nuovi nemici della gente, a stabilimenti caseari e panifici. La sardegna, che fino ad allora, aveva goduto di una certa autonomia, nemmeno troppo reale, ora è una semplice regione, facente parte del regno d’italia, la cenerentola, come si suol dire, di quella grande nazione nata dall’evoluzione, e derivata direttamente, dal regno sardo. Il nucleo originario di una nazione, relegato ad ultimo della classe, nemmeno questo può essere accettato, da un popolo fiero e dignitoso. A costo di sacrificare le proprie vite, in quei tumulti, la gente Sarda esprime, ancora una volta, il diritto di poter appartenere all’unica nazione che hanno amato fin da tempi immemorabili, la nazione sarda. Non si è mai riconosciuta in alcun altro stato, venuto sistematicamente per depredare. Il bisogno di auto determinazione non si è mai assopito, ed ora che le viene negato persino il diritto alla sussistenza, non ci si può aspettare altro che sollevazioni popolari. Ancora una volta, come era successo poco più di un secolo fa, durante la rivolta a cui avevano partecipato Gavino e Jacques, l’isola è in fiamme, e ancora una volta, l’esercito dei potenti è presente per contrastare giuste rivendicazioni. La affermazione in ambito nazionale, della società industriale, non può prescindere dall’importanza delle miniere, fornitrice di indispensabili materie prime, traino essenziale per il suo sviluppo, e la sardegna rappresenta una fonte di approvvigionamento, tra le più importanti dell’intera nazione. Un non voler riconoscere, né a fatti, né a parole, che il bene di un’intera nazione, quella italiana, è assicurata dalla sua regione cenerentola, esaspera gli animi della sua gente. Dalle sue miniere escono prodotti indispensabili per quel progetto: carbone, lignite, argento, piombo, zinco e ferro; le miniere devono funzionare, anche un solo giorno di sciopero, per la nuova società che sta muovendo i primi passi, è deleterio. Il potere vuole dimostrare che non sopporta ritardi, per quel progetto. Durante la riunione della delegazione sindacale a cui partecipa anche Franciscu, tutti gli operai e le operaie, e le loro famiglie, aspettano i risultati dell’incontro, riuniti nel piazzale antistante gli uffici della dirigenza, decisi a non accettare nessuna imposizione, e far valere le proprie rivendicazioni, sanno che il radicalismo che finora ha sorretto le loro richieste, è l’unica strada percorribile per ottenere concessioni. Affollano quello spiazzo, duemila operai, stufi di dover lavorare pesantemente dodici ore al giorno, per una misera paga, e costretti persino a pagare l’acqua per dissetarsi e l’olio per l’illuminazione delle gallerie. Improvvisamente, nell’ufficio dove si svolge l’incontro, si sentono degli spari, quando Franciscu si affaccia vede una vera e propria battaglia tra quella miserevole folla e cento trenta soldati, accorsi per disperdere i dimostranti, i minatori si difendono lanciando gli unici proiettili che hanno a disposizione, le pietre raccattate a terra, mentre i soldati sparano in continuazione sulla folla compatta, a colpo sicuro, certi di non sbagliare bersaglio. Ma non riescono a disperdere la folla, decisa persino a morire, pur di non soccombere a logiche assurde di pesante sfruttamento; restano insanguinati nella polvere, tra i minatori, tre morti e undici feriti. 

Non esistidi cosa prùs leggia, chi bì su sangui de is fillus nostus, imbrutai su pruì, e bessì nieddu, cussu pruì chi issusu anti bogai de is intranias de sa terra, e poitta? Po’ unu arrogheddu de pani, po’ arricchì genti ignobili chi teinti su coru fridu e mau, e osatrus, sodraus, fillusu de is proprous aiaius, cumenti eis potziu boccì is fradis? E candu seis a ribellai a custus aramigus? Nou, non seis osatrus chi eisi sparau, fillus de sa genti nosta, is aramigus, funti cuscus esseris ignobilis chi creinti di essiuna razza diversa da nosu, genti disgraziada e offendia, ma ada a benni dì, e non adessi attesu, chi nosu puru eisu a biri ca su colori de su sangui insoru, esti uguali a su nostu, pietadi po’ osatrus, sodraus mischinus, chi eis arregodai cun dabori custa dì de luttu, e puru osatrus eisi a fai gherra a is prepotentis.




Non esiste cosa più brutta, che vedere il sangue della nostra gente, colorare la polvere nera, e diventare anch’esso nero, quella polvere che loro stessi hanno portato fuori dalla pancia della terra, e perché? Per un pezzo di pane, per arricchire gente ignobile, dal cuore freddo, e voi soldati, figli degli stessi nostri avi, come avete potuto sparare sui fratelli? E quando vi ribellerete a questi demoni? No, non avete sparato voi alla nostra gente, la colpevole è quella razza che crede di essere diversa da noi, che siamo gente disgraziata e offesa, ma verrà il giorno, e non sarà lontano, che vedremo il colore del loro sangue, pietà per voi, incolpevoli soldati, che ricorderete con dolore questo giorno, e anche voi, insieme a noi, farete guerra ai prepotenti.




Pochi giorni dopo, ottiene un grande successo la mobilitazione degli operai: è stato organizzato il primo sciopero generale in italia, per non dimenticare quei morti, un’intera nazione risulta bloccata da un’azione compatta, che mette in evidenza le terribili situazioni in cui deve districarsi un intero popolo di derelitti. E il potere reazionario, per minimizzare l’accaduto, mostra il suo vero volto di sfruttatore e di prevaricatore.

Rivoluzionari! Chi sciopera non è altro che un rivoluzionario, gente infame che sceglie di protestare contro la società borghese, pilastro della nostra patria, che non ha voluto quell’eccidio, generato e provocato dagli stessi operai, che non capiscono che il progresso viene unicamente da noi. Non sanno fare altro che agitare le acque livide del pantano male odorante in cui vivono, ma sapremo opporre le barricate della giustizia contro la violenza di questi pezzenti. Come un gracchiare di stupide rane, dal palco dei comizi, vogliono far credere che vincerà il disordine e la protesta, ma ciò non succederà, perché possiamo dimostrare che si sta mettendo in atto una colossale montatura contro di noi, che siamo i soli che possono condurre la nazione verso l’inevitabile progresso. Sappiate che noi abbiamo pietà di voi, poveri illusi, che ancora non avete capito che nulla potrete fare, contro il nuovo ordine che avanza.

Se questi criminali hanno finora sopportato qualche sporadica agitazione operaia, supportati dai soldati, la novità storica dello sciopero generale, evidentemente, ha scardinato le loro certezze. E ormai sanno, che gli operai hanno a disposizione anche quella formidabile arma. Sanno che qualsiasi rivendicazione di ognuna regione, porterà con sé l’appoggio fattivo di tutta la nazione operaia. E sanno perfettamente che, pure in presenza di soldati, quell’arma verrà usata. È scontro aperto, in tutta la nazione, tra il popolo, e i nuovi ricchi, la borghesia industriale. E inizia anche una campagna giornalistica per descrivere il popolo Sardo, come propenso a delinquere, gravato da tare biologiche che lo spingono a non riconoscere alcuna forma di ordine sociale, il banditismo viene descritto come una conseguenza di fattori degeneri, insiti nell’animo dei Sardi, e non già una conseguenza di misere condizioni economiche. La loro propensione a creare sommosse come conseguenza di menti malate, e quasi si suggerisce che sia una razza da estinguere! E tutto questo passa come risultanza di analisi scientifiche! Hanno scomodato persino la scienza, per i loro luridi ragionamenti! Ora non resta che mettere in campo persino Dio, e il gioco è fatto. E in sardegna è sempre la stessa storia, la gente affamata assalta dappertutto dove può trovare cibo, vengono attuati sequestri di persone, a scopo di riscatto, riesumate le antiche bardane, l’analfabetismo colpisce sette persone su dieci, continua la siccità, causata dai disboscamenti, il banditismo diviene sempre più rilevante, zanzare e malaria non sono state debellate, la filossera distrugge tutti i vigneti, e gli usurai, spalleggiati dallo stato, la fanno da padroni. Negozi e uffici daziari sono assaltati continuamente, i prezzi dei cibi aumentano in maniera esponenziale, la gente non può più sopportare simili situazioni, e l’unica risposta che lo stato riesce a dare è l’invio dei soldati. Mai che i politici si chiedano perché si sviluppa tutto questo disordine, mai che si analizzi come mai l’isola, è di gran lunga la più disagiata regione italiana, a loro fa comodo che si giustifichi il tutto come conseguenza di tare genetiche. Ogni sciopero decretato nell’isola, termina con almeno un morto tra i manifestanti, a volte sparato alle spalle. In un paese vicino alla miniera in cui opera Franciscu, per vari giorni, ha avuto il sopravvento la furia di una moltitudine di disperati, per sfamarsi ha rubato dappertutto; l’intervento dei soldati ha causato dieci morti. Quasi venti mila Sardi hanno lasciato la loro terra disgraziata, e sono emigrati, alla ricerca di un posto più vivibile, qui non è garantito nemmeno il diritto a sfamarsi e a vivere. E nemmeno a manifestare, e chi decide di aderire a scioperi e manifestazioni, sa perfettamente che mette a rischio la propria vita, ma si sciopera e si manifesta comunque. Un intervento parlamentare di un rappresentante, non Sardo, mette bene in evidenza la situazione dell’isola:

bisogna sostituire col pane, le erbe e le ghiande, di cui il contadino si ciba, per non morire di fame.

Affermazione forte indubbiamente, ma estremamente veritiera. Perché il pane è un lusso, per chi ha stipendi di pura sopravvivenza. Si hanno notizia di scioperi continui, ricorrenti, e catastrofici, in termini di vite umane. Minatori, battellieri, operai delle saline, tipografi e calzolai, solo per citare alcune categorie, scioperano ripetutamente. E si fermano solo in due casi, o quando hanno ottenuto quello che chiedevano, oppure dopo alcuni giorni dall’uccisione di uno dei manifestanti. Sembrerebbe che l’unico modo per ottenere diritti, sia il sacrificio di vite umane, e in genere, dopo che il sangue plebeo è stato sparso, i padroni si affrettano ad esaudire le richieste. La gente è inferocita dappertutto, fa paura, e i soldati, spesso male addestrati, temendo per la loro stessa vita, sparano sulla folla. Ad ogni sommossa, deve esserci almeno un morto, la sardegna diventa come un immenso tappeto, spruzzato dappertutto da grandi macchie rosse di sangue. Il disprezzo dello stato per le misere condizioni della gente, fa scoppiare altre rivolte, e altre ancora, in una spirale inarrestabile di rivendicazioni e morte, di diritti negati e piazze arrossate dal sangue della povera gente. E se un esercito dovrebbe avere la funzione di evitare proteste cruente che ledano diritti altrui, spesso entra in azione senza motivo, terrorizzato dalla folla che mai si sognerebbe di far loro del male, in quanto figli della stessa gente. In un paese sono state uccise una moltitudine di persone, dopo essere state disperse: sparate vigliaccamente alle spalle. Proiettili contro sassi, dappertutto. E anche casteddu si ribella.

Non teneus prusu bucca po tzerriai su dabori, non teneus prusu ogus po prangi is mortus, s’anti lassau scetti sa debillesa de sa fami, meganta a si srangai su sangui e sa sperantzia.

Non abbiamo bocca per gridare il dolore, occhi per piangere, né sangue e né speranza, ci hanno lasciato solo la debolezza della fame, ci succhiano il sangue e la speranza.




È appena spuntata l’alba, a casteddu, una leggera brezza proveniente dal mare, rende l’aria frizzante di questo maggio che non vuol sentire ragioni di essere climaticamente normale, e la fredda temperatura invoglia i pochi passanti ad affrettare il passo. Anche Franciscu, che si è trasferito in città, si dirige, insieme ad altre persone, verso un punto prestabilito. Ha abbandonato la miniera, è stato licenziato, perché riconosciuto come uno dei più pericolosi sovversivi tra i dipendenti. Ora esercita in maniera autonoma la sua professione di ingegnere, ma è sempre sensibile alle istanze della gente povera. E a casteddu, la povera gente abbonda forse più che in altre zone, e le disparità economiche, qui sono ben più evidenti che altrove. Qui agiscono, per lo più, le dirigenze di importanti industrie sparse nella zona meridionale dell’isola, nate da quel vento malefico che si chiama rivoluzione industriale. Ma sono poco più che grossi artigiani, che faticosamente stanno cercando di dare un’impronta industriale alle loro aziende. Gente benestante, ma non quanto i proprietari terrieri, che, come se si fossero messi d’accordo, hanno preferito soggiornare in città, piuttosto che stare a contatto con i contadini, ritenuti in questo periodo, particolarmente pericolosi e agguerriti. Il radicalismo che ha sempre contraddistinto quella gente rurale, oggi, per loro, è ancora più ingombrante che in passato. E fanno la bella vita in quartieri esclusivi, in ville enormi, sempre in vacanza, ben pasciuti e senza alcun obbligo verso la società. Ritiene di essere la sola categoria che imprime indirizzi culturali a tutta un’isola, solo per il fatto che si diletta a scrivere libri sulla storia della sardegna, inconfutabilmente falsi e tendenziosi, dalla visione storica partigiana, sempre ad elogiare la borghesia del passato, descritta come il vero volano che ha consentito di creare uno spirito unitario di popolo. Ma non ammetterebbe mai che, se pure molte rivolte popolari, in passato, sono state favorite da alcuni libri scritti da gente colta, i veri personaggi che hanno creato un forte senso di appartenenza, sono i più plebei cantadores. Se un senso di nazione è presente tra la gente, è opera di quella miriade di personaggi nati in povere case, e non certo in lussuose ville. Gente che, pur non avendo studiato, hanno avuto l’accortezza di informarsi continuamente sulla storia della propria gente, e certo loro hanno avuto molta più influenza, di uno sparuto gruppo di falsi intellettuali, slegati dalle misere condizioni di vita, del passato e del presente. Per capire veramente le condizioni di un popolo, bisogna vivere nel suo tessuto sociale, condividerne le difficoltà, che loro nemmeno immaginano; non sono mai riusciti a cogliere il senso di frustrazione di etnie abbandonate per secoli ad una miseria infinita. Non sanno cosa vuol dire subire i morsi della fame, la disperazione di non poter curare la febbre dei propri figli, impossibilitati ad acquistare medicine. Non sanno cosa vuol dire subire disposizioni dall’alto, che in genere hanno favorito solo i più ricchi. Non sanno in definitiva, cosa vuol dire essere poveri. Ma sanno perfettamente come travisare la realtà, e affermano che ogni impulso verso qualunque fantomatica auto determinazione, è stata pilotata dalla borghesia, niente di più falso, la quasi totalità delle rivolte, in contro tendenza ad altre zone, qui, è sempre partita dalla gente. È sempre partita dalla sofferenza. Ma quella gente benestante, non è altro che una sparuta minoranza, la stragrande maggioranza della popolazione cittadina, è composta da povera gente, che non ha nemmeno i soldi per comprarsi un tozzo di pane, sempre più caro per le loro tasche vuote. Per le strade Franciscu nota delle persone, per lo più donne, che si incamminano verso un punto preciso della città, le segue, loro percorrono in ordine sparso una salita e, ad un certo punto, si riuniscono di fronte ad una bella costruzione. Le vede discutere animatamente, uomini e donne, ed ha la netta impressione che le più combattive siano proprio le donne. Sono operai e sigaraie che lavorano per la manifattura tabacchi, da qualche giorno in sciopero; scambiano impressioni sull’incontro che hanno avuto il giorno prima col sindaco. Hanno esposto le loro rivendicazioni riguardo al fatto che, essendo le loro paghe troppo misere, non riescono più a sopportare i continui aumenti dei prezzi delle derrate alimentari. L’atteggiamento del giorno prima del sindaco, ha chiuso ogni possibile margine di trattativa. Il municipio di casteddu gestisce alcuni mercati popolari, e anche se i prezzi là sono sensibilmente inferiori a quelli dei negozi privati, sono pur sempre proibitivi per le paghe striminzite degli operai. E infatti, al gruppo, si uniscono, poco dopo, i gestori dei vari scomparti di vendita dei mercati cittadini, vessati dai continui aumenti delle gabelle comunali. Anche tra loro, se pure in minoranza, le donne dimostrano di essere più radicali e combattive degli uomini. Venditori di pesci, di pane, di carne, zucchero, ortaggi e frutta, discutono delle frasi sentite il giorno prima, dalla bocca del sindaco:

se non potete mangiare la carne, allora mangiate baccalà, potreste mangiare il pane persino a un franco al chilo, e che importa a me?

E seppure il pane costa mezza lira al chilo, gli stipendi giornalieri medi degli operai, sono compresi tra le due e le tre lire. La sproporzione è troppo evidente per non gridare allo scandalo, e gli animi si infiammano, al solo sentire riportate le parole del primo cittadino. E tutti, Franciscu compreso, dopo quella prima, estemporanea riunione, si dirigono verso la parte alta della città, in una grande piazza, quella denominata del bastione, dove generalmente si tengono i comizi. Sono da vari giorni in sciopero un po’ tutte le categorie operaie della città, i più irrequieti sono i carrettieri, che vedono il loro lavoro divenire sempre più raro, a causa della politica dei trasporti adottata, che incentiva l’uso di tram e treni, a scapito dei loro affari. E manifestano la loro rabbia anche i panettieri, che vorrebbero la riduzione delle ore lavorative giornaliere, da qiundici a dodici ore soltanto. E gli scalmanati scaricatori di porto, con una paga giornaliera misera per il duro lavoro, di tre lire e mezza, vorrebbero passare a cinque lire, e la riduzione delle ore giornaliere da quindici a sole nove ore. Pretese evidentemente troppo onerose per chi deve sganciare i soldi, e tutte queste rivendicazioni cadono nel vuoto. Gli animi sono sempre più agitati, e il comizio, organizzato dalle sigaraie, non fa altro che agitare ancora di più gli animi. Si decide di mettere pressione al sindaco, costringerlo a cambiare atteggiamento, e al termine del comizio, viene spontaneo lasciarsi andare ad azioni violente, a causa dei continui dinieghi ricevuti. Durante il tragitto verso il municipio, la folla si lascia andare a gesti opinabili, tutto quello che malauguratamente si trova a portata di mano, viene distrutto: una segheria viene letteralmente rasa al suolo, alcune osterie quasi completamente distrutte, come al solito la rabbia cieca della gente esasperata, si accanisce verso chi non è la causa delle sue disgrazie. E vanno a cercare anche, stavolta con ragione, i simboli del potere, e numerose case del dazio ed esattorie vengono anch’esse rase al suolo, distrutti registri e documenti, ma la rabbia non si placa, e quella moltitudine di gente vessata e per troppo tempo non ascoltata, vorrebbe mettere a soqquadro anche il municipio. Ma qui trovano un cordone di guardie municipali, e carabinieri, che impediscono loro di attuare il proposito. Le sigaraie, visto che il sindaco, col quale avrebbero voluto continuare la discussione del giorno precedente, non c’è, insistono sul fatto che è necessario non arrendersi. Ma, pur riconoscendo che quelle donne non hanno tutti i torti, si decide che il giorno dopo, lunedì, si sarebbe ripreso il lavoro. E infatti, di buon mattino, come avviene normalmente, viene aperto il mercato civico, e si comincia a vendere la merce, come se niente fosse successo i giorni precedenti. Ma alla vista dell’esattore dei diritti comunali di utilizzo delle varie aree del mercato, senza alcuna programmazione, spontaneamente, viene accolto da urla e fischi, e costretto a dileguarsi in fretta e furia, per evitare guai. Nessuno ha intenzione di pagare alcuna gabella, accorrono varie guardie municipali, e alla vista di quel simbolo del potere, i venditori si agitano ancora di più, e anche le guardie sono costrette ad abbandonare precipitosamente il campo. Qualche minuto dopo, tutti i venditori, escono in strada, con le loro ceste colme di generi alimentari, e cominciano a vendere la loro merce a prezzi sensibilmente più bassi del solito. Preferiscono favorire la popolazione, piuttosto che pagare tasse che ritengono troppo esose. E quelle ceste, piene di pesci, pane, carne e uova, divengono sempre più leggere, con grande gioia dei piccioccheddus de crobi, i ragazzini portatori di corbulas, che li accompagnano. Senza che nessuno abbia deciso niente, il corteo di gente, sempre più numerosa, inconsciamente, si dirige verso la manifattura tabacchi, dove lavorano le sigaraie, che hanno dimostrato di essere le più decise, nel corso degli scioperi e delle manifestazioni dei giorni precedenti. Ben sapendo che gli operai della manifattura, e soprattutto le sigaraie, sono i più combattivi, e immaginando che un’agitazione così non può prescindere dalla loro presenza, alcuni drappelli di carabinieri, danno man forte alle guardie municipali, per presidiare quella zona. Vogliono impedire che il corteo, che durante il tragitto è diventato imponente, si ingrossi ancora di più, per giunta con le persone che hanno dimostrato più di tutti grande decisione e radicalismo. I dimostranti vogliono entrare nella manifattura, e le forze dell’ordine sono apposta là, proprio per contrastarli. E tra grida, fischi e imprecazioni, e qualche scaramuccia, le sigaraie sentono il gran baccano, e forzano loro stesse, il cordone dei militari. Questi reagiscono, e si verifica una sorta di piccola guerra cittadina, alcuni, da ambo le parti, restano feriti e sanguinanti. Vedere donne ferite fa infiammare definitivamente gli animi. La gente non vede più nulla, tanta è la rabbia. Pugni, urla, sassate, e fucili che vengono usati per difendersi, come bastoni, fanno si che la zona si ricopra di sangue, ma nessun colpo è stato sparato. In pochi minuti, tutta la zona viene circondata dai carabinieri accorsi nel frattempo, ma nulla possono fare contro quella marea di folla inferocita, che riesce a forzare il cordone di militari, pure molto numeroso. L’animo di Franziscu, si esaspera soprattutto alla vista del sangue femminile, a casa sua, gli hanno insegnato che una donna non va mai toccata. In una società matriarcale come quella ogliastrina, e sarda in generale, la donna è il simbolo stesso della vita, le innumerevoli dee madri rinvenute in sardegna, certificano che la donna, è la sintesi del nostro popolo, già da tempi antichissimi. E il corteo, sempre più esasperato, tanto da potersi definire cieco, si dirige verso la stazione ferroviaria, altro simbolo del potere, accompagnata ai due lati da carabinieri e guardie municipali. Vedendo che a protezione della stazione, li attende un picchetto di fanteria, per giunta con le baionette innestate, la folla, già inferocita, diventa incontrollabile, alcuni si strappano la camicia, ed espongono il petto alle baionette dei militari, e li invitano a colpire. Partono raffiche di sassi all’indirizzo dei soldati, e si cerca di forzare le difese della stazione, gli animi sono esasperati, e la folla fa paura. E in prima fila, ancora una volta, avanzano le donne. Quella folla inferocita, dimostrando decisione, riesce a obbligare i militari a più miti consigli, e viene dato ordine di disinnestare le baionette, e lasciar passare la gente; il pesante cancello viene aperto, e la gente si riversa così dentro la stazione. Tre militari sono feriti, e sanguinano abbondantemente, vengono medicati sul posto, e tra loro si diffonde un senso di impotenza di fronte a quella moltitudine di gente. Soprattutto i carrettieri, che vedono le ferrovie come un pericolo per la loro attività, tentano di causare i maggiori danni in stazione, ma subito la folla, si dirige verso una semoleria di cereali, poco distante, per invitare gli operai ad unirsi al corteo. Questi li attendono all’esterno dello stabilimento, e così ingrossano il pur già corposo esercito di disperati. Tutti insieme si dirigono verso il porto, e giungono ad una costruzione adibita alla riscossione delle tasse dei pescatori, un ufficio del dazio, forse il simbolo del potere più odiato dai casteddaius. Passaggio obbligato dei pescatori, di ritorno dalla loro giornata di lavoro in mare, costretti a lasciare in quel posto odioso, la quarta parte del pescato. Sempre circondata dalla fanteria e dai carabinieri, la folla entra in quella costruzione, ne fa uscire in malo modo gli impiegati, e straccia, e brucia, registri e bollette, porta fuori le suppellettili, parte delle quali, le più infiammabili, vengono bruciate all’interno dell’esattoria, parte finiscono in mare, e pochi minuti dopo la casa è avvolta dalle fiamme. In mare galleggiano, oltre che i fogli di carta, innumerevoli altri oggetti, rischiarati da quel fuoco che sta azzerando quella costruzione così invisa. Poi si dirigono verso altri casotti daziari, disseminati nella zona portuale, e danno fuoco anche a loro. Terminata la dimostrazione che accerta senza ombra di dubbio, che lo stato è odiato, per via della distruzione dei suoi simboli, la folla si dirige ancora una volta verso un'altra espressione statale, ancora la stazione ferroviaria, decisi a distruggerla. Ma a protezione della stessa, ci sono ancora una volta, i militari, le cui fila, intanto, si sono ingrossate per via dell’arrivo di contingenti, provenienti dall’entroterra. Lo stato decide che i danni devono cessare e si pone a muso duro contro quella gente. Pure tra l’intenso vociare, e le grida di insulti verso lo stato, si sentono distintamente, lugubri e striduli, orrendamente ingombranti e forieri di disgrazie, tre squilli di tromba, che avvertono i soldati, che dovranno caricare la folla, e che questa dovrà decidere in un attimo, se resistere o disperdersi. Tre squilli di tromba nefasti e inopportuni, tre squilli che fanno capire alla gente quale sarà l’atteggiamento dello stato, verso i loro problemi. Come al solito la scelta del potere creerà morti e feriti, non c’è stata una volta, quando si sono sentiti quei tre squilli, in tutta l’isola, che la folla abbia indietreggiato, non una volta che non ci siano stati morti. In un attimo gli uni si dirigono verso gli altri, la folla non ha intenzione di indietreggiare di fronte a quell’arroganza, e tra colpi di fucile da una parte, e fitte sassaiole dall’altra, i due gruppi vengono a contatto. Urla, sangue, pugni, colpi di fucile, gemiti di feriti e le voci stridule delle sigaraie, in prima fila contro l’esercito, raffiche lugubri e irreali di mitraglia, fanno da contorno a quell’avvenimento che non sarebbe dovuto arrivare a tanto. Il momento più doloroso è arrivato, molti sono i feriti, da ambo le parti, e la piazza rossa di sangue, diventa un tetro campo di battaglia tra figli della stessa gente, che mai avrebbero voluto scontrarsi. Infatti, pur essendoci tra i fanti, ragazzi provenienti dal continente, e figli di povera gente anch’essi, molti soldati sono di origine Sarda. La piazza è ricoperta da sassi insanguinati, qua e là si vedono pozze di sangue, sangue proletario, i vetri fracassati della stazione, feriscono chi cade in terra, e si insanguinano pure essi, qualcuno raccoglie le pietre insanguinate, e le scaglia di nuovo, le urla di dolore, pure tra quel terribile frastuono, fanno rabbrividire la pelle, un carabiniere stramazza a terra, svenuto, accanto ad un manifestante, morto, col cranio fracassato da una pallottola. Un altro soldato, con un tonfo percettibile pure tra quella baraonda, cade fragorosamente a terra, poi un altro ancora, a far compagnia ad un disgraziato quanto lui, ma appartenete alla fazione opposta. Una guardia scappa, ma il suo incedere è impedito dal fatto che ha una gamba fratturata, uno scioperante si fracassa anch’egli una gamba, restata incastrata in una ringhiera, vengono divelte delle aste di ferro, per essere usate come improvvisate armi, in un disperato tentativo di contrapporsi ai fucili e alle mitraglie dei soldati, tutt’intorno è un immenso gridare e imprecare, colpi di fucile si sentono tetri pure tra quel frastuono, e certo qualcuno, un attimo dopo, è finito tra i sassi insanguinati, e il vetro della stazione. Un soldato isolano, freme, combattuto dal bisogno di difendersi, e la certezza che non vorrebbe fare del male a qualcuno della sua gente, mentre il suo comandante sputa sangue, e vaga tra la folla, senza sapere neppure lui cosa stia facendo. E quando la folla riconosce un funzionario statale, si accanisce verso di lui, e questi quasi viene lapidato, dalle pietre scagliate con le forze residue ancora a disposizione. Un soldato si sente bagnare il volto da abbondante sangue, che sente orrendamente caldo, e fa compagnia al suo comandante, e gironzola tra la folla inebetito, terrorizzato e incapace di ragionare, ha gli occhi completamente tappati dal sangue, inciampa su un ostacolo che naturalmente non ha visto, si rialza, e inciampa di nuovo. E la folla ha paura, ma non si arrende, mentre la forza pubblica è letteralmente terrorizzata, ha visto cosa può fare la gente inferocita, e un soldato Sardo pensa che dovrà tenersi in vita, perché anche lui ha una mamma che lo aspetta.

Disgraziau esti stettiu su momentu chi anti donau s’ordini de sparai, tristu su penzai di essi in perigulu, de podi morri, deu puru tengiu una mamma chi mi aspettada, tristu e miseniu chi ha donau s’ordini a sa trumba, trista s’idea de deppi biri tottu custu sangui, e is ogus nostus sciustus de lagrimas, tristus is cumpangius chi non anti intendiu arrexoni, e si funti ghettaus contras a sa genti nosta, ma d’anti fattu scetti po’ si difendi. Tristas condizionis, po’ sa genti, obbligada de si schierai contras a nosu, trista e balente sa genti, chi adi donau su pettusu, bersagliu de sa mitraglia, tristas nenias, bessidas de buccas arroscias de tzerriai bastada, pezza bia a scioberu, in bendida, o in arregallu, pezza pronta a si distruggi, nou, nosu teneus timoria de morri, du biu, ma deu non sparu a pitzus de nemus.




Infausto è stato il momento in cui hanno dato l’ordine di sparare, triste il pensiero di essere in pericolo, la possibilità di poter morire, anche io ho una mamma che mi aspetta, disgraziato chi ha dato l’ordine al trombettiere, orrenda la visione di tutto questo sangue, i miei occhi bagnati hanno compassione di quei soldati che hanno sparato sulla folla, ma so che l’hanno fatto solo per difendersi, terrorizzati dalla paura, tristi condizioni per la gente, obbligata a schierarsi contro di noi, valorosa la gente che ha mostrato il petto, bersaglio per la mitraglia, tristi lamenti scaturiti da bocche stufe di gridare basta, carne viva a scelta, in vendita, o in regalo, carne preparata alla distruzione, no, abbiamo tutti paura di morire, lo vedo, ma non sparo addosso a nessuno.




Il povero soldato ha deciso che non sparerà un solo colpo contro quella gente, i fratelli, figli della stessa, disgraziata gente, non devono uccidersi a vicenda. E la folla non si ferma nemmeno di fronte alla morte, e le vittime tra le sue fila, inopinatamente, invece di renderla mansueta, la rende ancora più decisa, gli eventi sono inarrestabili, e incontrollabili, tutto può succedere, anche altre morti. E la folla si fa largo tra i soldati, irrompe nella stazione, fracassa tutto quello che trova, mette a ferro e fuoco quel simbolo del potere tanto odiato, la stazione diviene la vittima inanimata del malcontento popolare, tra i binari sono buttate le poltrone delle sale d’aspetto, i treni distrutti, come i fogli e gli arredi degli uffici, i militari, ormai sconfitti, travolti dalla folla, infuriata e cieca, come se stesse vivendo in maniera non più controllabile, avanza dove capita, come un animale impazzito, che distrugge tutto quello che gli capita a tiro, e si ingrossa sempre più, sempre più cieca, sempre più sorda, e sempre più incontrollabile, né dai soldati, né dalla ragione. Domina, unica e foriera di altri morti, solo la sua stessa pazzia distruttrice. E i militari, ancora una volta, terrorizzati da tanta furia, temendo per la propria vita, sparano di nuovo, e di nuovo sono travolti e massacrati, la folla si accanisce verso quelli che hanno osato, ancora una volta, premere il grilletto. Su chi aveva osato sparare su chi, come lui stesso, ha il torto di essere nato miserabile. La marea umana si dirige verso i suoi bersagli naturali, i casotti daziari della stazione sono letteralmente polverizzati tutti, dati alle fiamme, e quando l’opera è compiuta, la gente esce dalla stazione, irriconoscibile e spruzzata nella carne e negli abiti logori, di sangue plebeo. E attraversa la piazza, anch’essa arrossata dallo stesso sangue, e raccata da terra tutti i sassi, unica arma a disposizione, contro fucili, pistole e mitraglie. E viene dato, ancora una volta, l’ordine di sparare sulla folla, ma quei poveri soldati, stanchi di vedere tanto sangue, sparano in aria, e in quell’occasione, nessuno resta colpito dalle pallottole, ma loro si, vengono investiti da sassaiole che arrossano ancora di più questo posto disgraziato. La folla è circondata da soldati e carabinieri, ma essi stessi si sentono circondati da tutta una città, la gente è dappertutto, anche dietro di loro, e certo non resterà immobile, se qualche fucilata dovesse colpire ancora i manifestanti. E chi è più terrorizzato anche in questo frangente, è l’esercito, che nulla può. E quando ancora una volta, la folla cerca di forzare l’accerchiamento, loro sollevano in aria i fucili con le baionette innestate, contravvenendo agli ordini. Una volta liberatasi dall’accerchiamento, la folla riprende il cammino lungo la larghissima strada di fronte al porto, che può essere definita una gigantesca piazza, e quella marea di gente non ha alcuna difficoltà a sollevare e rovesciare una miriade di tram, alcuni di essi finiscono in mare, e lungo tutto quel tratto, le rotaie dei tram sono divelte, è impressionante scoprire cosa può fare la folla inferocita, la forza della rabbia si moltiplica, chi potrebbe mai fermarla? E una decina di soldati, circondati e malmenati, terrorizzati, sporchi di sangue, si rifugiano in un casotto dei tram, e in preda al terrore, comincia a sparare, a sparare dove la folla è meno fitta, in un disperato tentativo di salvarsi la vita, e nello stesso tempo, incapaci di avere sulla coscienza un massacro, vengono risparmiati, ma ne escono pesti e logori, insanguinati, esattamente come un pescatore, appena colpito alle gambe da molti proiettili, sparati da una mitraglia. Un altro resta quasi infilzato, nel tentativo di scavalcare un’inferriata, e la folla ora si scaglia ancora verso i soldati, e dalle varie pattuglie separa ogni comandante, che viene percosso e lasciato in terra, solo quando dimostra di non reagire più. La caccia a chi ha dato ordine di sparare è assidua, la folla non si cura quasi più dei soldati, vuole i comandanti tra le mani, che vengono insultati, sputati e percossi. A tutti vengono strappati gradi e distintivi, devono subire l’onta di una degradazione che avviene dal basso, certamente la più infamante, la gente ha deciso che non meritano la loro compassione, e ancora una volta vengono percossi pesantemente, chi decide di sguainare la spada, e ferisce qualcuno, viene lasciato in terra, esanime.




E quando tutto si placa, in un ambiente che sembra irreale, tra il rosso del sangue, abiti e stivali per terra, i morti e i feriti, i tram capovolti e le rotaie divelte, le pietre arrossate e disperse, passa mesta la carovana dei feriti gementi, la gente e i soldati, adesso si, uniti nello stesso viaggio, poveri tutti, figli del popolo, la sofferenza dipinta in volto, per se stessi e per i morti. I visi prima rossi dalla rabbia, ora sono bianchi e smunti, si domandano increduli cosa sia successo. Come un risveglio dal sogno, la gente e i soldati sono ammutoliti, cosa potrebbero mai dire di fronte a tanto scempio di persone e di cose, e si abbracciano, con i visi rigati di lacrime rosse, i soldati e la gente, insieme, e abbracciandosi mischiano il loro sangue, si guardano in faccia, e piangono in maniera sommessa. Solo le grida di chi ha visto la morte dei suoi cari, riesce a spezzare quell’aria tetra, innaturale e pesante. Ora si, tutti capaci di riflettere, tutti a domandarsi di come sia potuta passare quell’aria malefica di pazzia. E la pietosa visione di bambini feriti, e di donne coraggiose, ferite logore e sporche di terra e sangue, visione che fa vergognare. Qua e là pozze di sangue, se ne sente persino l’odore, un facchino ferito in pancia da una baionetta si contorce per terra, e viene raccolto dal mesto corteo, i soccorritori instancabili, trasportano feriti come in un eterno cammino, là si lamenta debolmente un giovane con la testa fracassata, più in là, triste visione, la faccia bianca di un morto, tanti in terra con le gambe spezzate, di un unico colore, il colore che domina dappertutto, accanto si guardano increduli due padri di famiglia, in terra, forse feriti a morte. E più in là, gruppi di soldati stanchi, laceri e sporchi, in un angolo, pesti in viso e negli occhi sguardi dolorosi di mestizia, e due parenti abbracciati, uno in divisa, l’altro con abiti da lavoro, pure io ho i genitori in ansia, pure io sono figlio, come tu sei padre, pure io ho una madre, ho diritto a vivere, pure io, come te, appartengo al popolo, anche se sono carabiniere, non avrebbe sofferto anche mia madre, se fossi restato ucciso? E triste visione appare, immagini mai viste, ferri chirurgici usati nella strada, e medicazioni tra la polvere. E due condizioni misere, che mirano allo stesso fine, ma con azioni contrastanti, la folla combatte per se stessa, ma i militari si domandano per chi abbiano combattuto, per chi dovranno ancora contro coscienza, alla ricerca di armonia e ordine, ed ecco avvenimenti che variano quelle armonie, che tendono ad altri ideali, che vengono continuamente distrutti e continuamente sostituiti, sovvertiti e azzerati, gerarchie che si insediano, vittoriose, e subito vengono spodestate, sostituite da logiche contrastanti, ma perché è così complicata l’umanità, in un eterno rincorrersi tra la giustizia e il diritto, tra l’ordine e il bisogno di affermarsi, tra l’armonia e il caos, e il voler andare, questo si, avanti insieme, alla ricerca di nuove frontiere, di nuovi percorsi, e di nuove libertà? 




La gente svuotata di ogni energia, si guarda in viso, inebetita e incredula, ora è in pace con se stessa, ha capito che quello che è successo, è derivato da eventi non voluti, e che l’irrazionalità di pochi momenti, ha preso il sopravvento sulla razionalità, e bene o male se ne fa una ragione. La gente e i soldati si guardano in faccia, e tra loro, come in un messaggio muto, ma che gli sguardi rendono evidente, giurano a vicenda che simili avvenimenti non dovranno mai più essere ripetuti. Tutti, tra loro, decidono che è venuto il momento di tornare a casa, di dimenticare le assurdità compiute e subite. E i fanti, e forse anche i loro superiori, hanno capito oggi che quando la gente si muove, non capita per caso, deve essere lasciata libera di agire, anche se distrugge, perché la gente, la povera gente, quando si muove, ne ha ben ragione, la gente ha il volto di Dio, non si muove mai per obiettivi futili, quando agisce, è per la giustizia. E certo, quei soldati, se dovessero vivere un’altra simile esperienza, non punterebbero mai più un fucile sulla gente, e all’ordine di sparare, lo farebbero, ma non sulla folla. E la rassegnata mestizia stampata sui volti di tutti, è destinata a durare per poco. La rabbia, ancora una volta, dovrà prenderne il posto. Come in una surreale, inaspettata e soprattutto infausta visione, appare agli occhi della gente, e dei soldati, l’immagine peggiore e meno auspicata che potessero vedere: sono in arrivo, provenienti dalla stazione, molti soldati, con in testa un generale e alcuni colonnelli. Alla vista di quei simboli del potere, reali, minacciosi, la folla si riunisce, di nuovo, non è dunque finita questa infernale giornata. L’esasperazione, prende il posto della pace appena conquistata, come che la gente sia obbligata a raccogliere la sfida che lo stato, questo stato arrogante e cieco, ancora una volta, lancia alla gente. Come per dimostrare che non ha paura, butta a mare tutto quello che capita, persino dei tram, rotaie e tutto quello che hanno a tiro, varie recinzioni vengono divelte, e buttate a mare, il popolo casteddaiu, vuole dimostrare allo stato che non sopporta steccati che separano, ora che hanno capito che essere uniti è molto più produttivo. Senza essere contrastati, si avviano verso il naturale punto di aggregazione del popolo, il bastione. Non hanno voglia di scontrarsi, di nuovo, con i soldati, e se ne vanno, ma non per mancanza di coraggio, no, quello è già stato dimostrato, dimostrano di usare il cervello molto meglio dei rappresentanti dello stato, evitano così un altro, inutile spargimento di sangue. Un’ora dopo, la pure enorme piazza che sovrasta casteddu, è piena zeppa di gente, si fa il punto della situazione, si contano i morti e le centinaia di feriti, decine di loro sono martoriati da più di una pallottola, evidentemente sparata da una mitraglia. Tutte le categorie operaie della città sono rappresentate in quell’interminabile elenco di persone ferite, operai, pescatori, piccioccheddus de crobi, fruttivendoli, sigaraie, carrettieri, lavandaie, calzolai, l’elenco non finisce qui, e certo qualche categoria di poveri lavoratori, è stata dimenticata. Basti dire che tutta la popolazione cittadina della classe operaia, nessuna categoria esclusa, è coinvolta nella rivolta, e presente al bastione. Ma sono state distrutte anche strutture invise alla gente, ha riportato danni il municipio, la stazione è irriconoscibile, il porto idem, e soprattutto i casotti daziari distrutti completamente e dati alle fiamme. Si decide che lo sciopero deve continuare, e tutti gli uffici erariali e i dazi di tutta la città devono essere dati alle fiamme, con tutte le scartoffie che contengono. E si fa il punto sulla situazione della gente, si valutano i prezzi dei vari generi alimentari, rapportati ai vari stipendi. Persino alcuni dipendenti pubblici, che percepiscono paghe ben al di sopra del doppio della media degli stipendi operai, si lamentano che non ce la fanno più a vivere. Si mette in evidenza il fatto che le paghe, qui, sono ben al di sotto di quelle continentali, pur costando di più i vari generi alimentari. E ancora una volta, come è successo per molti secoli, la gente capisce che la sardegna è trattata ancora alla stregua di una colonia. Strade e collegamenti inesistenti, sterrate e mai messe a posto, bonifiche mai realizzate, con la conseguenza che la malaria impera, i commerci resi quasi impossibili dall’insularietà, e se pure il feudalesimo è stato azzerato, nuovi baroni imperano nelle campagne. Troppe disparità esistono tra il continente e quest’isola dimenticata. No, non è possibile che un popolo, in simili condizioni, non si ribelli, e ancora viene deciso che lo sciopero deve continuare.

Sa malaria, su famini, su pruì e sa bruttesa, funti is meri de custa terra, biendi sa genti de sardigna, paridi ca sa razza umana deppada sparessi, trista maledizioni, sa chi pottada a sa ribellioni, o a deppi scerai sa rassegnazioni. Dogni otta si deppidi decidi chi sumportai o cumbatti. Is buccas funti fadiadas de is lamentus, is ogus lucidus de callentura de malaria, is pippius cun is brentis prenas de aria, e is cambas finas, paridi cust’isula, su pranu de sa morti.




Il martedì, la gente, come convenuto, si riunisce, già di buon mattino, ai piedi del bastione, e quando la piazza non riesce a contenere più quella marea di gente, tutti salgono sull’immensa piazza che li sovrasta. Ma anche quella, seppure enorme, non è sufficiente a contenere tanta gente, e molti stanno sulle scalinate, o sulle strade a ridosso di essa. Inizia la discussione, si decide di andare ancora una volta, in municipio, una sigaraia, la più combattiva di tutte, strappa un drappo rosso ad uno dei presenti, lo issa su un’asta, poi si toglie il velo nero che portava in testa, e abbruna il drappo con quel velo, hanno una bandiera, ora, il vessillo simbolo della rivolta. Farà compagnia a qualche bandiera dei quattro mori. Quando scendono in direzione del municipio, vedono un gruppo di carrettieri buttare a mare alcuni tram. Il municipio è presidiato dai carabinieri, che, vedendo quella moltitudine di persone, tolgono il cordone che protegge il palazzo del potere, che in un attimo viene invaso dalla gente. Si chiede a gran voce il rilascio dei molti arrestati, la gente dimostra di essere intransigente, e un ufficiale si reca in carcere, con la promessa che avrebbe fatto di tutto per liberare quelle persone, torna con dei fogli che attestano la scarcerazione di tutti, e poco dopo arrivano gli ex prigionieri, accolti da manifestazioni di gioia, la bandiera, sempre in mano della sigaraia, viene allegramente sventolata in aria. Si decide di continuare lo sciopero, i pochi tram rimasti vengono gettati a mare, le rotaie divelte, e la folla fa il giro di tutta la città, di tutti i casotti del dazio presenti in città, nessun mattone, o tegola, o suppellettile, resta integro, vengono letteralmente polverizzati. Ci pensa il fuoco a terminare l’opera. Il giorno dopo, la gente, quando si riunisce, decide di assaltare i panifici tenuti aperti durante la rivolta, alcuni dei manifestanti sono senza mangiare da giorni. Quando passa un grande carro carico di pane, viene assaltato, le guardie che lo dovrebbero proteggere, non oppongono la minima resistenza, e un attimo dopo è completamente svuotato del carico. I militari fanno sapere che la città verrà messa in stato d’assedio, e che più nessun atto ostile verrà tollerato. Come se avessero parlato al vento, i negozi vengono saccheggiati, e gli atti vandalici continuano per tutto il giorno. Non resta in piedi un solo palo telegrafico o telefonico in città, i casotti daziari sono un lontano ricordo, della stazione ferroviaria restano in piedi solo i muri, i tram distrutti o buttati a mare, e la rivolta, così come è nata, spontaneamente, pian piano, sommessamente, perde tutta la sua forza dirompente, del resto resta ben poco da distruggere. Bisogna seppellire i morti, e la gente torna alla sua vita stentata. La città è di nuovo sotto il controllo dei militari, ma nei paesi circostanti, è rivolta aperta. In un paese del circondario è stato distrutto uno stabilimento vinicolo, enormi massi impediscono la circolazione sulle rotaie dei tram, non è restato in piedi un solo palo telegrafico o telefonico, negozi e panifici saccheggiati. In un altro paese è successa la stessa cosa, la parte meridionale della sardegna è un focolaio di rivolte e distruzioni. Dappertutto. Si seppelliscono i morti, uno di loro porta il nome di Franciscu, il figlio di Gavino e Greca.




Bisogna lasciare a loro la cura dei propri beni, farli responsabili delle proprie sorti, sicché non possano mai più lagnarsi, se non di se stessi, né a prendere a odiare, ora, l’italia, come appresero a odiare il piemonte.

L’aula di monte citorio, a roma, quando si parla dei problemi della sardegna, non è mai gremita, ma per un giorno, visti gli avvenimenti recenti, gli onorevoli sono curiosi di sapere come mai è potuta avvenire una rivolta di tutta una città, e di buona parte dell’isola, e finalmente conoscono i problemi che fanno di quell’isola, una terra dimenticata. Scoprono che la miseria porta ad atteggiamenti impensabili per loro, abituati a non avere problemi economici, e di come in una sola città, nugoro, siano stati processati in un solo anno, quasi settecento persone, accusate di banditismo. E scoprono che le fonti di sostentamento si riducono a pochi elementi: agricoltura, pastorizia, miniere di zinco e piombo, sale e cattura del tonno. Si parla della rissosità dei Sardi, qualcuno afferma che il formaggio prodotto ha un sapore orribile, un altro afferma che, seppure di ottimo sapore, non lo mangerebbe mai, vista la sporcizia dilagante, un popolo sporco e poltrone che non sa nemmeno lavorare la terra, un popolo di briganti, quel mestiere si, hanno imparato a farlo bene. Sembra che siano nati unicamente per creare problemi. Qualcuno dei deputati, particolarmente intelligente, a parer suo, afferma che i Sardi, sono di poco superiori alle bestie. Qualcuno afferma che la sardegna fa vergogna al resto dell’italia, del resto i loro deputati, sono i primi a non voler fare gli interessi della propria terra, e preferiscono comportarsi tra loro, come cani e gatti. Animali che vivono in catapecchie fatiscenti, non sanno cosa voglia dire una strada selciata, niente fanali per le strade, niente fognature, non hanno nemmeno latrine. Un popolo che non ha imparato ad essere civile, un popolo che ha tanti di quei problemi, che non riesce a vivere che giorno dopo giorno, senza un minimo di programmazione. L’acqua a disposizione è malsana, e la malaria impera. Non sanno che il tempo, in questa terra, è trascorso invano, e la situazione, oggi, è di gran lunga peggiore di ieri. È il libero regno della peggiore anarchia, non c’è altra soluzione che mandare l’esercito, la loro intelligenza li porta a trovare, secondo loro, la migliore soluzione. Qualcuno, un po’ più obiettivo, dei suoi colleghi onorevoli, afferma che le case comunali, o statali, sono come uno schiaffo, a fianco dei luridi porcili in cui sono costretti a vivere quella gente disgraziata. I contusi e i feriti delle forze dell’ordine, sono messi bene in evidenza, onorati per il loro coraggio e abnegazione, saranno premiati e qualcuno aumenterà di grado, il potere deve dimostrare di essere generoso con chi difende i propri interessi. Le morti che hanno colpito il popolo sono minimizzate. Si raccomanda di arrestare molta gente, tra i più facinorosi, non importa se tra loro, siano in gran numero le donne. Ed una punizione esemplare deve essere data al simbolo della rivolta, la sigaraia che non ha abbandonato per un attimo la sua bandiera abbrunata. È questa la soluzione di tutti i problemi, quella che viene data dal presidente del consiglio, e raccomanda anche di ricercare i veri responsabili, quelli che hanno fomentato quella rivolta, a lui fa comodo pensare che il popolo sia stato plagiato. Ma l’evidenza dei fatti dimostra che la rivolta è stata spontanea, nata dal basso, dal basso delle misere condizioni in cui è tenuta ancora una popolazione, che sembra sia un corpo estraneo alla nuova nazione italiana. Conclude l’intelligente e condiviso discorso dicendo che un plauso, deve essere riconosciuto ai militari che hanno ristabilito finalmente l’ordine sociale, anche perché tra le loro fila risultano molti feriti. Dalla parte più emarginata del parlamento si sente una voce chiara, stizzita e potente:

"si ma col piombo, quello stesso minerale che la nostra stessa gente ha estratto dalle viscere della nostra stessa terra!"





Ogni riferimento a fatti e persone esistite, o viventi, pur in un contesto storico e sociale reale, sono da considerarsi puramente casuale.
Un ringraziamento è per Enrico, e ai suoi amici che hanno tradotto le frasi in lingua ogliastrina, Giampiero, Paola, Camilla e Floriana.




Questo romanzo è dedicato alla memoria del reverendo don Antonio Abis





























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