martedì 14 febbraio 2017

I RACCONTI DI JOLAO







I RACCONTI DI JOLAO



Correva l'anno 2022.

La Sardegna era già da cinque anni fondamentalmente libera, anche se l'italia occupava ancora il territorio.

La nazione sarda era riuscita ad acquisire una identità di popolo, e ad eliminare i dissidi tra i vari movimenti indipendentisti, che hanno fatto finalmente fronte comune, ivi compresi il corposo gruppo dei popoli liberi e il movimento di liberazione, che rappresentava tutto il popolo Sardo.

L'occasione per liberare la sardegna era ghiotta, di fronte al disfacimento di tutto il sistema italia, bisognava approfittare della sua debolezza, ma bisognava farlo in maniera intelligente.





 



Erano anni che le scuole e la sanità non funzionavano quasi più, per mancanza di fondi, succhiati dai finanzieri speculatori che intanto si erano ulteriormente rafforzati sui vari stati europei, le forze dell'ordine non svolgevano più il loro ruolo, sia per mancanza di fondi, sia perchè erano riusciti ad acquisire la consapevolezza necessaria che avrebbero dovuto smettere di difendere degli autentici criminali, a discapito della gente. 

Il sistema tenuto in piedi dalla rete meramente amministrativa dei comuni, e non solo nell'isola, era allo sfacelo, per il semplice motivo che i finanziamenti provenienti dallo stato centrale erano irrisori, e le entrate comunali esigue, visto che la gente aveva enormi difficoltà a pagare imposte e servizi.

Le imposte statali erano pagate solo da dipendenti pubblici, gli altri non si potevano permettere di regalare soldi allo stato, moneta a fondo perduto.

Lo scenario era da incubo, fabbriche dismesse, artigiani che ormai lavoravano esclusivamente in nero, gli esercizi commerciali si rifiutavano di emettere scontrini, l'agricoltura era agonizzante, e anche gli agricoltori, e chiunque aveva una impresa, si rifiutava di pagare le imposte.

Gli stipendi e le pensioni era ridicoli, non esisteva più una parvenza di stato sociale.

Aveva avuto un successo mediatico enorme, e non solo nell'isola, un libro scritto da un sardo, esperto di tematiche monetarie, che dimostrava che le tasse non sono dovute.

Dimostrava che la disobbedienza fiscale non era un reato, ma legittima difesa. 

E sull'onda di quella consapevolezza che quel libro aveva generato, i cittadini ripresero in mano la loro vita, preferendo mandare avanti le loro famiglie, piuttosto che versare denari allo stato, sapendo che esso non avrebbe rimesso in circolo quei capitali, per il semplice motivo che doveva pagare cifre sempre più consistenti a chi "prestava" loro la moneta.

La grande truffa era stata portata alla luce, la gente preferiva usare una miriade di monete popolari, complementari e comunali, e abbandonare al suo destino la moneta ufficiale imposta dall'europa.

in quegli anni, il movimento di liberazione nazionale sardo, era riuscito a compattare i vari movimenti indipendentisti, aveva una polizia sarda che poteva tranquillamente competere con la famigerata eurogendfor, anche perchè i sardi erano riusciti finalmente a capire che diventare un popolo coeso era indispensabile, abbandonando l'eterna predisposizione all'individualismo sterile.

Erano anni che in sardegna nessuno acquistava alle aste giudiziarie, perchè con blitz improvvisi e decisi, la polizia sarda insieme alla gente, si riappropriava delle aziende e delle case pignorate, i sardi erano riusciti finalmente ad avere l'effettivo possesso dei loro territori.

L'anagrafe sarda contava ormai una quantità di iscritti che avrebbe consentito di acquisire la libertà senza sparare un solo colpo di fucile, ma quei dati vennero tenuti segreti, in vista di una possibile occasione.

E l'occasione si presentò pochi anni fa. 

Era stato organizzato nella base nucleare americana dismessa di la maddalena, in uno scenario fantastico, un summit esclusivo al quale avrebbero partecipato la gran parte dei rappresentanti delle più ricche famiglie di speculatori internazionali, quelli che prestando la loro moneta, avevano affamato tutta l'europa, nessuna nazione esclusa.
Pochi minuti dopo che ebbe inizio la riunione, la polizia sarda, tutta la polizia sarda, spalleggiata da frange consistenti delle restanti forze dell'ordine italiane, fecero irruzione nella grande sala del convegno, disarmarono i componenti della polizia europea, che aveva il compito di difendere quei criminali finanziari, arrestarono tutti gli speculatori, e qualche minuto dopo, il governo provvisorio del popolo sardo, in nome dei sardi, dichiarò la sua indipendenza, certificata dal fatto che gli iscritti all'anagrafe nazionale sarda superavano abbondantemente la metà della popolazione.
Bastava questo fatto perchè lo stato italiano rispettasse il volere dei sardi, del resto la giurisprudenza internazionale parlava chiaro, ma il motivo per cui non intervenne militarmente a vanificare l'impresa compiuta, era un altro.
Il timore di inimicarsi le famiglie più potenti del pianeta, per via dei ricatti che avrebbe potuto subire, fecero desistere quello che restava dell'esercito italiano, dall'invadere l'isola.
Il timore delle fetenzìe di non vedere mai più i loro familiari, ostaggi dei sardi, costrinse il governo e l'esercito italiano a restare sulla penisola.
Il governo sardo, ormai non più provvisorio, stampò la sua moneta, in nome e per conto della nazione sarda, e decise di trattare bene gli ostaggi, e fornì loro, quotidianamente, quello che hanno sempre apprezzato, al di sopra di tutto.
Ogni giorno le loro celle erano invase da banconote, sempre di più, fin quasi a sommergerli, si potevano dire soddisfatti, pur in mancanza di libertà, avevano a disposizione quello a cui avevano sempre aspirato.
Venivano nutriti a pane e acqua, del resto il loro bisogno primario, il possesso di moneta, era stato soddisfatto.
Si sospetta che qualcuno di loro preferisse confezionare un panino, e a mo' di sandwich inserire nel mezzo delle banconote farcite con qualche monetina, ma è una supposizione, non esistono prove certe al riguardo.
A qualcuno venne in mente che da quegli odiati personaggi, odiati in tutto il globo, si potevano persino ricavare altri soldi, in funzione turistica.
Vennero accompagnati in una località del gennargentu, ospitati in un solidissimo albergo a mille stelle, (l'ospitalità per noi è sacra) a disposizione di chi, magari venuto apposta da decine di migliaia di chilometri di distanza, poteva fare di loro ciò che voleva, il passatempo più gettonato era quello di infliggere loro delle frustate, ricambiando il favore con alcune banconote in cambio, per ciascuna frustata.
Il turismo nell'isola ebbe una impennata stratosferica, e non solo per la bellezza dei paesaggi, e del mare, da tutto il mondo arrivava gente desiderosa di ricambiare almeno in parte le sofferenze che per colpa degli speculatori aveva dovuto sopportare.
E così vissero tutti felici e contenti, i finanzieri con tutti i soldi di cui avevano bisogno, anzi, in sovrappiù, riscuotendo anche una percentuale su ciascuna frustata, e i sardi per il ritrovato splendore economico, senza contare che poterono riabbracciare tutti i conterranei che lasciarono l'isola per emigrare in luoghi più favorevoli ad una vita che si potesse dire umana.
Questa è una favola, ma attenzione, oggi le condizioni ci sono tutte perchè questi avvenimenti possano effettivamente avvenire, basta crederci.



Piazza Donna Francesca
Benchè il diciottesimo secolo fosse il regno del feudalesimo e delle zanzare, con la malaria al seguito, è stato compiuto in sardegna, prima che in continente, un fondamentale passo della storia dell'uomo, favorito dalla presenza di attività minerarie: la civiltà industriale.
Nonostante.
Nonostante le strade polverose, nonostante condizioni igieniche disumane, nonostante la mancanza atavica di collegamenti, nonostante l'arretratezza indotta dal colonialismo spagnolo e, ancor più, da quello piemontese.
Le fonti di sostentamento si riducevano a pochi elementi: agricoltura, pastorizia, miniere di zinco e piombo, di carbone, sale e cattura del tonno.
Si sommi a tutto questo la rissosità dei Sardi, in continente qualcuno afferma che il formaggio prodotto ha un sapore orribile, un altro afferma che, seppure di ottimo sapore, non lo mangerebbe mai, vista la sporcizia dilagante.
Un popolo sporco e poltrone che non sa nemmeno lavorare la terra, un popolo di briganti, quel mestiere si, hanno imparato a farlo bene.
Sembra che i Sardi siano nati unicamente per creare problemi, qualcuno afferma che i Sardi, sono di poco superiori alle bestie. Qualcuno afferma che la sardegna fa vergogna al resto del regno. Poco più che animali che vivono in catapecchie fatiscenti, non sanno cosa voglia dire una strada selciata, niente fanali per le strade, niente fognature, non hanno nemmeno latrine.
Un popolo che non ha imparato ad essere civile, un popolo che ha tanti di quei problemi, che non riesce a vivere che giorno dopo giorno, senza un minimo di programmazione.
L’acqua a disposizione è malsana, e la malaria impera.
Il tempo, in questa terra, è come che sia trascorso invano, e la situazione, con i piemontesi, è di gran lunga peggiore di ieri, con gli spagnoli.
È il libero regno della peggiore anarchia, dicono altrove.
Ecco quali erano le condizioni nelle quali versava il popolo sardo, esattamente nel periodo in cui ha vissuto una straordinaria Donna Sarda, una grande e coraggiosa innovatrice, oltre che educatrice, alla quale ogni centro abitato della sardegna dovrebbe dedicare una grande piazza.
La biografia che ha realizzato su di ella il giornalista Lucio Spiga, mette bene in risalto la portata storico-sociale della vita e delle realizzazioni di Donna Francesca Sanna Sulis.
Compito, oseremmo dire istituzionale, di ogni colonizzatore, è sminuire le qualità e le eccellenze del colonizzato.
Questa pratica diffusa ha un nome, si chiama teoria della minorità.
I savoia in questo sono stati dei veri maestri.
Nacque a Muravera, nel 1716, da una famiglia di possidenti, Francesca Sanna Sulis, dimostrò subito le sue doti imprenditoriali intuendo che la coltivazione del gelso in sardegna, viste le ottime condizioni climatiche, avrebbe prodotto una qualità di seta ben superiore a quella normalmente in circolazione.
Avviò coltivazioni di gelso e un grande e moderno laboratorio di tessitura.
Impiegò quasi esclusivamente maestranze femminili, aprì delle scuole di formazione sia personale che professionale, fece si, in tutti i modi, che le addette ai modernissimi telai di cui era dotato il suo laboratorio di quartucciu, nei sobborghi di cagliari, lavorassero in serenità, retribuite ben al di sopra delle paghe correnti.
Innovatrice anche in questo.
Si può dire che l'emancipazione femminile, in italia, sia scaturita per la prima volta in terra di sardegna?
Pensiamo proprio di si.
Ad un certo punto, Donna Francesca, capì che parte della sua produzione poteva essere lavorata in loco, e decise di aprire una sartoria di eccellenza, tanto eccellente che i suoi abiti vestivano le sovrane più potenti e più belle dell'europa di quel periodo.
Ebbe a disposizione, a conferma della enorme produzione, sei vascelli per il trasporto della seta e degli abiti.
Si può dire che il tanto decantato made in italy, sia nato in terra sarda?
Pensiamo proprio di si.
Molte delle caratteristiche migliori dello stato italiano che tanto disprezza il popolo sardo, sono nate e si sono sviluppate in sardegna.
Lo stesso stato italiano attuale è nato dalla sardegna, non va dimenticato.
La giurisprudenza occidentale è nata dalla carta de logu, redatta in epoca giudicale, dalla sarda Eleonora d'Arborea.
Non avrebbe avuto la stessa virulenza, la diffusione della civiltà industriale in continente, senza il carbone, i minerali e i legnami scippati alla terra di sardegna.
Non dimentichiamo che la lingua che ha dato origine a tutte le altre lingue occidentali, latino compreso, è il sardo-sumerico-accadico.
E' abbastanza?
Ecco cosa può nascere da una civiltà autenticamente matriarcale, eccellenze storiche, culturali, sociali, oltre che economiche, ecco cosa può nascere dalla vituperata terra di sardegna.
Cosa dovrebbe fare lo stato italiano, in un estremo e tardivo impeto di giustizia?
Riconoscere i nostri meriti, chiedere perdono per il male che ha fatto alla nazione sarda, denominare la supposta repubblica italiana col nome di Stato di Sardegna, e istituire cagliari come capitale.
Donna Francesca, la signora dei gelsi, morì a cagliari nel 1810.
Devolvette tutta la sua grande fortuna finanziaria ai poveri del suo paese natale: muravera.
Fino a che non saremo liberi, restiamo in attesa che tutti gli amministratori della fantomatica repubblica italiana in sardegna, buttino giù targhe di criminali italiani, come piazza garibaldi, viale cavour, largo carlo felice, via mazzini, e almeno in una piazza di ogni contrada, dispongano la dicitura "Piazza Francesca Sanna Sulis".


Il Comandante
La mia pagina facebook è nata dalla mia passione per gli scacchi.
Una volta aperta, mi sono dedicato a pubblicizzare i libri che ho finora pubblicato, ma mi interessava soprattutto avere intorno a me amici scacchisti, li scelsi tra gli innumerevoli amici sardi, ed allora, ampliando territorialmente pian piano le conoscenze, posso dire di avere come amici i più forti d'italia, forse tutti i 30 migliori giocatori italiani.
Decisi di ampliare gli orizzonti, forte (o debole) della mia conoscenza superficiale della lingua inglese, (mooolto superficiale), entrai in contatto con le chat fb e skype, di molti dei più forti e famosi giocatori del pineta, ora penso di poter dire che i venti più forti giocatori in assoluto, sono miei amici su quel social.
Poi l'impegno giornalistico, e soprattutto la mia militanza con il Movimento di Liberazione, fecero variare i miei interessi, abbandonai parzialmente sul social le mie frequentazioni scacchistiche, il sacro fuoco della libertà del mio popolo, mi costrinse a concedere sempre meno tempo agli scacchi e alle mie pubblicazioni.
Ed è proprio parlando con un mio amico che condivideva con me questo impegno di libertà, che saltò fuori la mia passione per il nobil giuoco. 
Non so come, ma saltò fuori.
Costui, che in passato dirigeva una non ben precisata caserma di un corpo militare statale di non so bene cosa, si interessò alle mie disquisizioni scacchistiche, e non so come, anche se non è suo costume ascoltare troppo a lungo le farneticazioni del sottoscritto, quella volta fu paziente e mi ascoltò a lungo.
Gli parlai di passati tornei che mi avevano soddisfatto, di trofei metallici e gastronomici, gli parlai della mia attività di istruttore federale, gli parlai di quella strana amicizia tra scacchisti, un frammistamento di odio e amore, ma sempre di amicizia, ritengo si tratti.
Dopo avermi fatto parlare senza interruzioni per ben oltre mezz'ora, (la qual cosa sul momento mi sembrò molto strana, perchè non era mai successa prima), mi sparò a bruciapelo una domanda : "dimmi Jolao, come te la cavi, strategicamente parlando, sull'uso dei pedoncini?" 
La domanda mi sembrò alquanto strana, ma risposi che mi trovavo bene, e a quel punto, lo ricordo come se fosse oggi, mi arrivò una botta dialettica che una incudine che cade dal decimo piano, non avrebbe fatto altrettanti danni, mi disse : "vedi Jolao, io penso che in fatto di strategia tu non possa competere con me".
A quel punto ho ipotizzato che magari lui fosse un forte giocatore di scacchi in incognito, ma mi dovetti ricredere subito, mi disse che se io spostavo pedoncini, lui faceva molto di più, spostava uomini!
Con affetto Comandante!


La stazione ferroviaria
Nella stazione ferroviaria del mio paesino, mooolti anni fa, era tutto un brulicare di gente, c'era il capo stazione, il bigliettaio, un addetto agli scambi dei binari, un inserviente che teneva puliti e in ordine tutti gli spazi, c'era persino un piccolo bar, con due addetti, uno preparava a tutto spiano cappuccini, l'altro panini.
Il bar era stracolmo di studenti e operai. Allora il servizio di trasporto pubblico era inteso come una necessità, dato che in pochi avevano un mezzo proprio per spostarsi, eravamo immersi in quella problematica e scomoda situazione che veniva chiamata civiltà contadina.
A voler essere cattivi, si poteva definire antiquata. Ma tant'è, quell'ambiente era vivo, vitale, e la gente si relazionava volentieri, e forse tutto il sistema dei trasporti era economicamente in perdita, ma era una risorsa per gli addetti e le loro famiglie, e di conseguenza anche per la società. Faceva bella mostra di se, in un ampio spazio verde, circondata dai fiori, una pianta plurisecolare, dei sui frutti si cibavano animali, uccelli e cristiani. E qualche seme che cadeva, inevitabilmente generava un'altra piantina. Misteri di una società contadina sorpassata e retrograda, mica come adesso.
Un bel giorno, lo stato, decise che, essendo in perdita, tutto il sistema di trasporto pubblico doveva essere alienato, ne ricavò una cospicua somma, palesemente inferiore comunque al suo reale valore. Tutto il sistema venne acquisito da una multinazionale che si occupava praticamente di tutte le realtà economiche esistenti, aveva come simbolo aziendale una bella rappresentazione di quella grande civiltà del passato che risponde al nome di civiltà egizia, rappresentava una elegante piramide dorata.
Si mise mano ad una corposa ristrutturazione di tutto il comparto, furono licenziati molti addetti, sostituiti da macchine, una distribuiva biglietti, un'altra li obliterava, un'altra ancora distribuiva cibi, bevande, e oggetti di uso comune. Quelle macchine erano costruite da una sua azienda consociata. Fu abbattuto l'albero, e sostituito da un altro, molto più produttivo e che generava frutti senza semi. Proveniva da una azienda che allevava piante, e sperimentava nuove tecniche agronomiche, era anche essa una emanazione della multinazionale.
La stazione, in seguito, risultava sempre più deserta, in quanto gli operai pendolari, si accorsero che era molto più comodo viaggiare in auto, e acquistarono i loro mezzi privati, che venivano venduti a prezzi contenuti, e soprattutto a rate, naturalmente da una fabbrica di proprietà di chi aveva acquistato il servizio di trasporti, essa produceva anche in quel settore, in regime di monopolio.
Ben presto, però anche loro, si trovarono disoccupati, sostituiti da una meccanizzazione selvaggia che li aveva travolti, molti di loro non riuscirono a pagare le restanti rate delle auto acquistate, che furono sequestrate, qualcuno di loro perse persino la casa. 
Intanto la stazione era desolatamente deserta, solo pochi studenti la frequentavano, e i costi di gestione del trasporto era lievitati, non restava che aumentare a dismisura il prezzo del biglietto, operazione facile in regime di monopolio.
Al deserto si aggiunge deserto e disperazione, deserto e debito, e ancora debito, precarietà, disoccupazione, e ci si accorge che il debito non può essere estinto. Il deserto ha generato schiavitù, perchè un debito inestinguibile significa sottomissione completa. Quando sento voci che dicono che lo stato ha intenzione di privatizzare beni e servizi, mi vengono i brividi, capisco al volo che bisognerebbe fermare questo andazzo iniquo, per non dare loro modo di interferire sulla mia vita e sulla mia serenità.
Ho deciso di rinunciare ai trasporti, al telefonino, ho disdetto il mio contratto per la fornitura di energia elettrica, la tv è da tempo che non so cosa sia, l'unico mio legame col mondo esterno è questo aggeggio che ho di fronte, alimentato da una fonte di energia autonoma che serve tutta la casa.
Ho deciso di trasformare questo deserto reale, in un'oasi, sono tornato alle origini, all'inizio del mio viaggio, sono tornato alla bistrattata civiltà contadina, dai bisogni essenziali, ho abbandonato comportamenti che ora giudico stupidi, generati da quella condizione che dicono sia la società consumistica, ho abbandonato comportamenti fittizi.
Sono tornato al seme della nostra esistenza, alla sintesi estrema del nostro vivere, tutto quello che è venuto dopo la civiltà rurale, società dei consumi in primis, ma anche questa disumana società dei servizi, creata solo per generare denaro in regime di nulla concorrenza, è stata, secondo me, una colossale fregatura.
Ma intorno agli spazi verdi che utilizzo, mi accorgo che esiste un immenso deserto, spoglio di vegetazione e di umanità, ho capito che le piramidi possono dominare solo in presenza di terra bruciata, di sofferenza, di crisi infinite.

Le piramidi prosperano nel deserto, non certo in una stazione ferroviaria affollata da umanesimo e vitalità, l'albero nuovo che è stato piantato in quella stazione non ha generato altre piantine, non contiene la vita, non contiene semi, il deserto può avere molti aspetti, ma sempre deserto è, e ho capito che ogni piramide reale, virtuale o fittizia, deve essere ribaltata o abbattuta, solo così tornerà a prosperare il colore più bello che esiste, il verde della natura.


Sandra, scacchi e dintorni.

Il palazzetto dello sport era stracolmo di bambini e ragazzi mentre gli spalti brulicavano di genitori e istruttori che sembravano molto più nervosi di loro. L’impianto sonoro faceva le bizze e non si riusciva a metterlo a punto; si decise di usarlo così perché non si poteva farne a meno, e tra fischi elettronici e proteste degli adulti per il disagio, e il divertimento dei ragazzi (che notoriamente accolgono con favore ogni novità, specialmente se è imprevista), gli organizzatori annunciarono l’inizio del torneo. Io e i miei amici Calabresi, che avevo conosciuto in albergo, smettemmo immediatamente di correre e creare scompiglio tra i tavoli, e ascoltammo quello che gli organizzatori avevano da dirci, fino a che non sentimmo i nostri nomi e il posto che avremmo dovuto occupare. Quasi tutti raggiunsero il loro posto ed io mi trovai ad un tratto spaesato e solo tra mille sconosciuti. A questo punto decisi di cercare il gruppo dei ragazzi Sardi per stabilire cosa avremmo dovuto fare. Incontrai Donato che a soli sedici anni vantava già un’esperienza di dieci anni nei campionati italiani giovanili. In quella bolgia dell’enorme palazzetto, lui era il nostro punto di riferimento e, quando gli altoparlanti annunciarono di nuovo il mio nome, lui mi afferrò per la maglietta e mi trascinò sino alla mia postazione di “combattimento”, augurandomi il suo “in bocca al lupo”, lo ringraziai, e subito dopo io mi sentii nuovamente spaesato e solo. 



Mi trovai di fronte un ragazzetto molto robusto, di riflesso pensai di essere stato fortunato a dovermi scontrare con lui nella scacchiera e non in una delle tante discipline fisiche. Si dimostrò gentile con me, ma penso che in cuor suo mi snobbasse un po’, il motivo più probabile era perché dimostrava almeno tre anni più di me. 

“ Mi chiamo Alessandro e tu?” 

“Jolao”

“Ma che nome è?”

“Non so, non l’ho mai sentito addosso a qualcuno nemmeno io”.

Poi, forse per intimorirmi, mi elencò i suoi successi scacchistici.

“Io ho in casa undici coppe, due targhe e tre pergamene, mi sono classificato primo ai provinciali e secondo ai regionali”.

Riuscì nell’intento; non potevo vantare tanti successi e pensai che dovevo chiudermi in difesa per limitare i danni. Per di più giocavo coi pezzi neri.

“Stringetevi la mano e orologio del bianco in moto”

Gracchiarono gli altoparlanti.

“Buona partita”

“Anche a te.” 

Come avevo previsto Alessandro giocò le prime mosse in maniera molto aggressiva. La giostra si era messa in moto, ma io avevo l’impressione che non vi ero ancora salito. Mi trovai subito in difficoltà e per non subire scacco matto gli dovetti regalare una torre. Lo guardai in viso e sembrava molto rilassato, mentre io sentivo che, se avessi perso, non avrei potuto arginare le lacrime che premevano sugli occhi. Forse era troppo rilassato e fece un errore; riuscii a catturare la regina e dopo un po’ abbandonò la partita. Mi strinse la mano e vidi due lacrimucce fare capolino sui suoi occhi, seguite subito dopo dalle mie.


Un minuto dopo eravamo già sul piazzale a dare calci a un pallone e le lacrimucce erano già dimenticate. Pian piano il piazzale si riempì di bambini aspiranti scacchisti, e pensai che avremmo fatto tutti più volentieri i calciatori. Un gruppo di bambine giocava a pallavolo. Nel palazzetto giocavano ancora i ragazzi più grandi, e quindi più esperti, la qual cosa, come mi fece notare in seguito il mio istruttore, avrebbe dovuto farmi capire che dovevo sfruttare tutto il tempo che avevo a disposizione.
“Ma ho vinto” protestai.
“Ma ora dovrai incontrare un bambino che ha vinto come te, quindi, per favore, sfrutta tutto il tempo”.
Sicuramente non diedi troppa importanza al consiglio, tanto è vero che la sera, dopo solo mezz’ora dall’inizio della partita, stavamo dando i tradizionali calci al pallone. Avevo conosciuto bambini di quasi tutte le regioni italiane, ho fatto amicizia in particolare, con un folto gruppo di bambine e bambini che provenivano dal friuli. Avevano quasi tutti i capelli chiari e lisci, solo una bambina della mia età li aveva ricci.

Le due partite del giorno seguente non ebbero maggior durata. Rientrai in albergo con mio padre che sembrava tranquillo, nonostante avessi perso gli ultimi tre incontri. Mi propose di uscire la notte per una pizza, di cui andavo ghiotto, il che mi stupì molto, come se ciò fosse stato un premio. Ma di fronte alla pizza fumante mi attendeva una brutta sorpresa.
“Domani rientriamo a casa”.
“Ma devo ancora giocare cinque partite!”
Mi guardò negli occhi e mi disse che se volevo giocare delle partite senza impegno, avrei potuto farlo anche in sardegna.
“Ma papà adesso siamo qua, fammi terminare il torneo”.
Adesso sì che le lacrime mi solcavano il viso; non potevo certo abbandonare i campionati italiani, e tutti i bambini che avevo conosciuto. Mio padre non si spostava di un millimetro da quello che aveva deciso.
“Ma papà perché , perché….” 

Avrei dovuto lasciare le nuove amicizie che mi ero conquistato, in particolare i compagni d’albergo Calabresi, e il gruppo di bambini Friulani coi quali mi sono trovato bene. E non avrei rivisto le splendide colline delle marche macchiate dal giallo del colza e del girasole, che si mischiava col verde dei vigneti, e il mare di porto san giorgio, un po’ meno colorato, ma pur sempre affascinante per un bambino di sei anni.
“Domani andiamo alla stazione, facciamo i biglietti per roma, e poi in nave verso casa.”
Avevo capito che non sarei riuscito a convincerlo, ma provai un disperato tentativo:
“Perché mi punisci così solo per aver perso le ultime tre partite?”
“Vedi Jolao , ho visto che non ti sei impegnato abbastanza, avevi troppa fretta di terminare le partite, per andare a giocare a pallone…..ti chiedo qual è il motivo per cui siamo qui, non certo per giocare a pallone!” e proseguì:
“Sei troppo piccolo, forse, per capire che se decidi di iniziare qualunque cosa, devi cercare di portarla a termine nel migliore dei modi e col massimo impegno.”
“Io mi sono impegnato, ma i miei avversari erano più forti, ho perso per questo!”
“No , non hai perso per questo; come mai i ragazzi più grandi finiscono la partita molto tempo dopo di voi? Loro non hanno fretta di giocare a pallone, sono venuti qui per giocare a scacchi”.

Sulla strada voci conosciute, erano alcuni dei giocatori Sardi con gli istruttori, tra cui il mio….. si avvicina, mi vede in lacrime, si siede accanto a me e chiede spiegazioni. Pensai che forse mi avrebbe aiutato a convincere mio padre, ma dopo la sua breve spiegazione capii che anche lui non era dalla mia parte. Dovevo fare l’ultimo tentativo.
“Papà, fammi terminare il torneo, ti prometto” dissi singhiozzando “che userò tutto il tempo e mi impegnerò al massimo.”
L’intervento del mio istruttore e di Donato convinse mio padre.

Vinsi quattro partite di fila, pareggiai l’ultima e mi classificai alla fine del torneo molto bene. Salutai gli amichetti, tre dei quali erano contentissimi perché avevano tra le mani una coppa, ma non così grandi come quella del nuovo campione italiano under sedici: Donato! E mentre stavamo andando via, qualcuno propose un’ultima partita a pallone per il pomeriggio. Dopo pranzo il piazzale era affollato da una cinquantina di bambini ed ebbe così inizio una colossale partita. Rientrato in albergo ero stanchissimo, forse dormii più di dieci ore di fila. Ripensandoci, ancora oggi, ricordo che in classifica dietro di me c’erano bambini molto più grandi di me, e ricordo con orgoglio quei giorni, e a quanto sia stata importante l’esperienza marchigiana.

Friuli, cormons.
Jolao e Sandra. Un bel divano comodo, la tv accesa, lei accanto, un bicchierino di Pelinkovez. La cena a base di frico e pollo alla diavola che avevamo consumato nella più antica trattoria di udine, era stata di nostro gradimento. Che bella invenzione il friuli! Mi piace tutto di questa terra, della sua gente, delle loro tradizioni, così simili alle nostre, il loro amore per l’agricoltura, i loro luoghi intinti da centomila tonalità di verde. Mi piace il loro “fasim di bessoi” (facciamo da noi) che non è molto diverso dalla nostra tenacità e dal nostro individualismo collettivo. Si, perché quando le contrarietà della vita bussano alla porta, sappiamo anche noi mettere da parte i nostri piccoli interessi personali e metterci a disposizione di chi ha bisogno di aiuto.

Certo il friuli ha dimostrato, con la tragedia del vajont, la catastrofe del terremoto, e le innumerevoli invasioni che la storia le ha riservato, che il bene comune è più importante del bene personale. Sono passati quindici dalla mia controversa e splendida esperienza delle marche. Ho partecipato altre volte ai campionati italiani giovanili, ottenendo per lo più buoni risultati, ma non sono mai riuscito a conquistare il titolo italiano. E ora, che sono candidato maestro, tento la grande avventura in un importante torneo internazionale in slovenia. Mi è di grande aiuto Sandra, molto più forte di me, anche lei a caccia del titolo di maestra. Le interminabili partite, supportate da programmi informatici, per sperimentare nuove strategie di gioco, ci portano ogni notte ad andare a letto solo e sempre dopo la una. Droga allo stato puro, gli scacchi!.

Decidiamo, per il giorno successivo, vigilia dell’inizio del torneo, di evitare accuratamente scacchi e scacchiera e dedicare la giornata a una gita per visitare alcuni luoghi tra i più significativi del friuli. Visitiamo la diga del vajont, le cittadine di maniago, spilimbergo e san daniele, il fiume tagliamento, e poi le zone più colpite dal terremoto, tra cui la carnia e gemona. Qua e là vediamo le case in legno costruite per fronteggiare l’emergenza alloggi dopo il disastro. Poi il ritorno a cormons; sembra che la parola “scacchi” sia un termine sconosciuto: non l’abbiamo pronunciato nemmeno una volta in quella faticosa giornata. A mezzanotte siamo già nel mondo dei sogni.

Il giorno dopo la sveglia suona alle sette e come per incanto sulla mia mente si materializzano alfieri, cavalli e torri, schemi di gioco, l’incubo dei pedoni avversari che minacciano i miei pezzi, la regina avversaria, minacciosa e imprevedibile, al pari dei suoi cavalli. E’ come se una giostra si mettesse in moto e mi trascinasse con sé. Come in una battaglia devo subire l’attacco di artiglieria degli alfieri, le incursioni dei cavalli, l’imprevedibilità dei pedoni, così forti a dispetto di ciò che si pensa comunemente, e la potenza delle torri che come carri armati cercano di sfondare le mie linee. E cosa dire di sua maestà la regina! E’ obbligatorio mettere al sicuro il re. L’incubo si dissolverà solo quando vedrò nella realtà i miei pezzi disposti per arginare gli attacchi avversari.

Molte volte, (per istinto di conservazione) vediamo pericoli che non esistono nell’immediatezza, ma solo in prospettiva, forse fra dieci o quindici mosse potrebbero diventare reali. Ma non gioca solo il mio avversario, gioco anch’io. Molte volte, paradossalmente, capita che si riesce a vincere, proprio quando la sconfitta sembra più vicina, quando siamo sull’orlo di un burrone, basterebbe una piccola spinta, e amen. Molte volte è sufficiente spostarsi di lato di un passo, e l’irruenza dell’avversario lo porterà a non trovare il bersaglio, a non trovarsi più la terra sotto i piedi. Ci facciamo coraggio a vicenda, saliamo in macchina e ci dirigiamo verso gorizia, colazione, e infine l’arrivo a nova gorica, in tutto abbiamo percorso meno di venti chilometri.

Arriviamo alla sede del torneo; tante luci, scacchi, scacchiere e orologi da torneo, disposti in perfetto ordine geometrico, quasi come un quadro optical-art. Provo a fissare intensamente il susseguirsi di tavoli e sedie e vedo una prospettiva irreale, che si infrange contro uno schermo gigantesco che emana una luce surreale. E’ il maxi schermo che serve a far vedere al pubblico presente in sala, in tempo reale, tramite una telecamera, le partite delle prime scacchiere o le partite che eventualmente vengono giudicate più interessanti o significative. I pezzi, disposti in posizione iniziale, così organica e quieta, sono in posizione di riposo. Come la quiete prima della battaglia. Dopo venti mosse , certo non si potrà dire lo stesso…. Un caos controllato regnerà sovrano, una piccola mossa potrà variare gli equilibri, una piccola distrazione potrà trasformare la scacchiera in caos puro, incontrollabile, schemi di gioco non più realizzabili, e i pezzi sembreranno non più disposti in precaria armonia, ma come buttati là, fini a se stessi, fine della sintonia, fine della sinergia, e infine nemesi.

Alle nove in punto partono gli orologi.
“Mossa al bianco, due ore e mezza a disposizione di ciascun giocatore e buon torneo a tutti”.
Toh, finalmente un impianto di amplificazione che funziona alla perfezione! Certo è, che dopo qualche ora di tensione, di concentrazione esasperata, cercando di ottimizzare il tempo che si ha a disposizione, qualche errore può sempre capitare anche a giocatori di grande esperienza. Si pensa che gli scacchi non siano uno sport , ma semplicemente un gioco; niente di più falso! La capacità di tenere la concentrazione per lungo tempo, anche per cinque ore e più, prerogativa di questo sport, penso non esista in nessun’altra competizione.

Esistono inoltre sport che, se pure uno dei contendenti commette un errore, molte volte si ha la possibilità di recuperare col talento o la determinazione; a scacchi non è così: generalmente un errore determina la sconfitta. Un calciatore può sbagliare un passaggio o un tiro, e la palla può passare sotto il controllo degli avversari, ma il più delle volte ciò non porta a un danno irreparabile. Si continua a giocare a punteggio invariato, ci sarà in seguito la possibilità di ricominciare daccapo, senza conseguenze. A scacchi, e in pochi altri sport, un errore grave, tra giocatori di livello simile, porta certamente alla sconfitta. Il risultato più probabile tra avversari di pari forza è il pareggio.

Nel caso uno dei due contendenti sia costretto a vincere, deve avere il coraggio di forzare il gioco, deve far leva sulle sue doti di autocontrollo, sulla conoscenza dello stile di gioco dell’avversario, su una sua sottile valutazione psicologica, e su tanti altri fattori che condizionano il rendimento dell’avversario. Mentre negli altri sport un gesto atletico può avere risultati buoni o cattivi , nel nostro sport si deve decidere continuamente quale sia la mossa più forte, cioè mi spiego meglio: ho un problema sulla scacchiera, lo posso risolvere in molti modi: in modo sufficiente generalmente non basta, bisogna continuamente fare il meglio che si ha a disposizione, non solo, ho anche una possibile altra opzione: posso non risolvere immediatamente il problema, ma creare difficoltà, magari in un altro settore della scacchiera, per distogliere l’avversario dalla sua linea di gioco, in quel caso le mosse successive decreteranno chi è riuscito a vedere più in la’ (anche dieci o quindici mosse) coi pezzi disposti diversamente, e forse con qualche pezzo in meno; in quel caso è necessaria una forte memoria visiva.

Certamente gli scacchi hanno una forte attinenza con la matematica, con la razionalità, con uno schematismo geometrico, ma non si tratta solo di questo: decine e decine sono le variabili, alcune delle quali hanno poco a che vedere con la razionalità, e molte volte siamo chiamati anche a doverci fidare del nostro istinto.
Uno sport estremamente complesso quindi, ma se si parla esclusivamente di “tecnica scacchistica” ecco, allora si può dire che basterebbero conoscenze matematiche. Tra gli allievi che ho avuto, i più ricettivi erano studenti che avevano un rendimento in matematica più che buono, ma gli allievi che hanno ottenuto alla lunga i migliori risultati, hanno fatto leva sulla determinazione, sulla voglia di apprendere, sulla costanza, su un pizzico di umiltà, e su tante ore dedicate allo studio degli scacchi sui libri e, perché no, anche su programmi informatici che non demonizzo.

Mentre penso a queste problematiche, (cosa che faccio spesso prima di ogni torneo importante) mi accorgo che il mio avversario ha già mosso: mossa di due passi del pedone di re, devo decidere come rispondere. Ho deciso: pedone c6 , una difesa tranquilla, per ora…… Mossa dopo mossa, la posizione dei pezzi porta ad un pareggio, ci stringiamo la mano, mezzo punto a ciascuno.

La sera gioco col bianco , con un avversario della mia stessa categoria, ma con un punteggio internazionale leggermente superiore al mio, alla fine si materializza un altro pareggio.
“Jolao, quanti punti hai?”
“Uno, e tu?”
“Uno e mezzo.”
Sandra è raggiante.
“Una vittoria e un pareggio non sono male.”
“Concordo, ma domani dovrai giocare con un avversario che ha i tuoi stessi punti, sarà dura.”
“Eh” risponde lei, ”dato che siamo in ballo, balliamo “.
“Tu sai quale sia il mio obiettivo”.
Il mio torneo è iniziato in modo tranquillo, mentre il suo promette scintille. Ore sette, la sveglia ha suonato una melodia e non il solito gracchiare, mi sento bene, non sono teso. Doccia e via, super colazione in un antico bar di gorizia, facendo scorta di zuccheri per i nostri neuroni, che oggi devono funzionare alla perfezione.

Lo schermo gigante segue l’intensa partita di Sandra, che gioca con un maestro internazionale, e non posso fare a meno di seguire anche la sua partita. La posizione dei miei pezzi e di quelli del mio avversario è abbastanza simmetrica e non richiede grandi analisi, ma la partita di Sandra è complicatissima. Tutto è appeso a un filo. Alla fine riesco a pareggiare, mentre Sandra risolve la partita con un brillante scambio di pezzi, e si ritrova in vantaggio nel finale. L’avversario avrebbe ancora potuto combattere, prolungando la partita, ma preferisce abbandonare. D’un tratto, il pubblico, composto per lo più da appassionati di scacchi, comincia ad interessarsi alla mia ragazza, qualcuno cerca di scambiare due parole con lei, che, lo si vede in viso, è molto soddisfatta della “performance”. Non so quanti caffè ci hanno offerto pur di entrare in contatto con lei.

Pranziamo con alcuni amici di cormons e gorizia, uno dei quali, arrivato in ritardo per seguire gli abbinamenti del prossimo turno, ci comunica che Sandra avrebbe dovuto giocare con un forte e conosciuto maestro internazionale del centro europa.
“Una brutta gatta da pelare” sentenzia qualcuno.
“Giocherai col bianco in seconda scacchiera” dice l’ultimo arrivato,
“Cercherò di giocare l’apertura italiana.”
“Te lo sconsiglio” tuona un amico di gorizia.
“Ho già giocato contro di lui l’apertura italiana e mi ha “asfaltato”.”

Che strani termini usiamo!
“Mi ha insidiato la donna”
“Mi ha fatto una forchetta.”
“Ho dovuto strisciare per tutta la partita.”
“Mi ha inchiodato il cavallo.”
“Ho dovuto subire un’infilata”
Sono termini che puntualizzano con precisione una posizione sulla scacchiera, che altrimenti avrebbe bisogno di molte parole per poter essere spiegata.
“Ti consiglio di aprire di donna” dice un amico di cormons, che conosce il suo stile di gioco per averci giocato con alterne vicende. Alla fine concordiamo sulla sua linea di apertura.
“Cerca di indirizzare il tuo avversario a giocare semplicemente l’apertura di donna , ho notato che è molto forte nella difesa “Pirc”.
Una lunga passeggiata rilassante, e finalmente posso avere Sandra tutta per me. Valutiamo la sua posizione in classifica, e concordiamo che basterebbe un pari ora per scalare in seguito la classifica.

Il maxi schermo, neanche a dirlo, segue esclusivamente il match in seconda scacchiera, eppure in prima, terza e quarta scacchiera giocano ben quattro grandi maestri! Evidentemente il pubblico ha gradito assistere alle enormi complicazioni della partita precedente, e ha eletto Sandra sua eroina. Penso che qualcuno guardi anche me con una punta di invidia.

Sandra è una bella ragazza, con uno sguardo cristallino e con un sorriso coinvolgente, con quei capelli mossi, alcuni dei quali le cadono sulla fronte. Con quegli occhialini così azzeccati e particolari che, quando li toglie, sembra un’altra persona. Con quella sua capacità di sintesi nello spiegare, la sua assertività, così spiccata da non lasciare dubbi sul suo pensiero, qualsiasi argomento tratti. Parliamo spesso di cinema , di fumetti, di teatro e di arte. Abbiamo in comune la passione per la grafologia, certe sere trascorse con amici finivano con l’analisi della scrittura, che portava spesso ad accese discussioni.
“Ma io non sono come mi descrivi tu”
“Forse, ma queste sono le nostre conclusioni.” 
“Non stiamo parlando di una scienza esatta”
“Infatti è una scienza sperimentale.”

E noi giù a riportare esempi di situazioni vissute dal capostipite della grafologia italiana, Moretti, e dalle sue conclusioni in ambito psichico, sociologico e persino anatomico. Raccontare i segni lasciati sul foglio, la loro inclinazione, grandezza, spazi, pressione della penna, curvature eccetera, sono condizionati dall’influenza che hanno su di noi centomila fattori. Cose così astratte da non poter essere spiegate in poche parole. La generosità, l’avarizia, certe inclinazioni, la spiritualità, l’immaginazione, il sogno, le aspirazioni, la progressione e la regressione, l’amore o meno per se stessi e per gli altri e centomila altri aspetti persino fisici e anatomici del nostro corpo e della nostra personalità, sono conclusioni che appaiono facili da esprimere ad un esperto grafologo.

Sandra imposta la sua quarta partita giocando in modo ordinato e senza correre troppi rischi, solo a un certo punto, a centro partita, si trova in leggera difficoltà, ma ne esce bene e riesce a incanalare la partita verso un tranquillo pareggio. Mi accorgo che il pubblico resta un po’ deluso da come Sandra ha condotto la partita, ma a lei va bene così. Resta nella parte alta della classifica, e sicuramente prima o poi avrebbe incontrato un grande maestro, il che le avrebbe consentito di conquistare (per uno strano meccanismo di punteggi internazionali) almeno la speranza di poter fare il grande salto di categoria. Io dal canto mio vinco il mio incontro senza grossi problemi per via di piccole inesattezze che il mio avversario ha commesso nel finale di partita.

Sandra ha vinto due partite, due le ha pareggiate, e con tre punti viaggia ancora nella parte alta della classifica mentre io, con due punti e mezzo sono lì, in buona posizione, ma devo ancora giocare una partita significativa, fase che lei ha abbondantemente superato. Il titolo di maestro è alla portata di entrambi, siamo fortunati a “pescare” due maestri.

Il quinto turno di gioco mi vede soccombere per un errore di valutazione commesso nelle prime dieci mosse. Dopo appena un’ora di gioco avevo già perso. Non voglio parlare di questa partita nata storta e finita peggio. Sandra, dal canto suo, conquista un altro mezzo punto, e con esso un gruppo di ragazzini appassionati di scacchi, che dicono di essere suoi fans. La mia posizione in classifica si aggrava improvvisamente, e con due punti e mezzo in cinque partite, devo uscire in fretta dal torpore agonistico che mi attanaglia.

Quasi per caso, ripenso ai miei primi campionati italiani giovanili, e alla pessima posizione iniziale di classifica in cui mi ero venuto a trovare, allora come adesso. Ricordo gli occhi celesti di mio padre che mi diceva:
“Domani rientriamo a casa.”
Un nodo in gola mi infastidisce, ma allo stesso tempo ripenso alla determinazione che riuscii ad esprimere.

Sandra ha tre punti su cinque e la fortuna le viene incontro con la sfida che deve affrontare: in quarta scacchiera è già seduto un uomo piuttosto robusto, rosso in viso, sessant’anni circa, dai tratti somatici può essere un Tedesco o un Austriaco. Ma la sua nazionalità non ha nessuna importanza; è un grande maestro che in classifica tiene il passo dei primissimi, infatti ha mezzo punto più di Sandra. Per lui è fondamentale vincere, mentre Sandra deve assolutamente non perdere. In prima scacchiera giocano due grandi maestri, ma gli organizzatori decidono di seguire prevalentemente la partita di Sandra. Ormai il pubblico apprezza il suo brillante stile di gioco. Uno stile di gioco corretto certo non basta a tener testa a un così forte avversario, ora è giunto il momento di tirar fuori tutto il suo talento.

Gioca una partita inglese, e tra la soddisfazione generale riesce a complicare talmente tanto il gioco, che la sua freschezza mentale e atletica alla fine prevale. Ha vinto quella partita perché ha dimostrato una capacità di analisi superiore. Mi confida che a un certo punto non è riuscita a valutare a fondo la situazione e ha giocato un paio di mosse d’istinto. Tanto si potrebbe dire sull’impostazione strategica e mentale tra maschi e femmine, io penso che il loro cervello funzioni diversamente dal nostro per via di certi meccanismi differenti riguardo alla sfera intuitiva. Secondo me hanno un grosso vantaggio su di noi, quando decidono di usare l’istinto, negli scacchi come nella vita, il più delle volte non sbagliano.

Io da parte mia mi aggiudico un punticino con un prima nazionale e mi porto a tre punti e mezzo in sei partite mentre Sandra ha un punto più di me. Per me non è ancora suonata la sveglia e questa vittoria non può certo rassicurarmi. Sandra invece, dall’alto dei suoi punti è in terza posizione a pari merito con altri.

Ci ritroviamo, un’ora dopo, alla sede del circolo di cormons per commentare con gli amici gli ultimi avvenimenti. E dato che siamo in periodo natalizio non possono mancare un paio di panettoni e qualche bottiglia di ottimo vino friulano. I complimenti per Sandra si sprecano.
“Ma dove vuoi arrivare?”
“Se continui così vincerai il torneo!”
“Mai si è visto un candidato così in alto in classifica!”
“E poi una donna!”
“Sono al settimo cielo!”

Il giorno dopo la vede giocare in terza scacchiera contro un maestro mentre io gioco con un candidato. La posizione di Sandra si fa preferire per tutto il corso della partita e gioca il finale con un pedone in più. Dato il suo stato di forma confido in una sua vittoria, ma così non è. Si deve accontentare di un pareggio che la porta a cinque punti in sette partite. Quella è stata un’occasione sprecata; che il suo stato di grazia sia terminato? Io gioco la mia solita, scialba partita senza scossoni e il risultato non può essere che un pareggio. Ho quattro punti in sette partite e viaggio a centro classifica.

Solito pranzo con gli amici, solito ritardatario che ogni giorno non può fare a meno di seguire gli abbinamenti. Stavolta arriva quasi correndo, mette una mano sulla spalla di Sandra, e dice:
“Devi giocare col grande maestro russo che è in testa alla classifica!”
Lo dice così forte che sentiamo un improvviso brusio provenire dai tavoli accanto. Una vecchia, magrissima signora, sugli ottant’anni, si alza a fatica dalla sedia, bastone in mano, e guardando Sandra attraverso un minuscolo paio di occhialini dorati le dice:
“Dacci dentro figliola, lo puoi battere!”
Offre il pranzo a tutti, i gioielli che porta addosso testimoniano che per lei è una spesa irrisoria. Ci dice che ha una dozzina di nipoti e pronipoti e ci propone un corso di scacchi per loro. Accettiamo di buon grado; la sua splendida villa di gorizia sarebbe diventata per qualche tempo una scuola-scacchi.

La telecamera non perde un istante dell'incontro in prima scacchiera, che avrebbe potuto decidere, già al penultimo turno, l’esito delle prime posizioni. Io gioco col bianco in decima scacchiera contro un forte maestro internazionale. Le speranze per me e Silvia sono a dir poco risibili. Dopo quattro ore di gioco, tuttavia le nostre posizioni non sono male. Ci si avvia al finale di partita, che è la fase più insidiosa per noi che siamo al di sotto di due gradini dei nostri avversari, e quindi meno esperti. E infatti la stanchezza gioca un brutto tiro a Sandra…… esegue una mossa puerile, così debole che in un attimo non si trova più la terra sotto i piedi e precipita nel burrone. Una mossa così sbagliata che da tutta la sala si leva un coro di “Noooo!” assordante e sgradevole. Sandra non ha retto alla tensione; stringe la mano al suo avversario e abbandona la partita con un sorriso.

Io intanto non sono affatto in difficoltà, anzi la mia posizione si fa preferire, provo in tutti i modi a vincere, ma non mi posso scoprire troppo perché se dovessi fare una mossa azzardata, certamente verrei punito. Ho un pedone in più a lato della scacchiera, ma non posso promuoverlo a regina. Ho pareggiato con un maestro internazionale per la prima volta, un risultato prestigioso, eppure non riesco a descrivere il mio stato d’animo, così contrastato tra gioia e rimpianto. Tra me e Sandra c’è a questo punto solo mezzo punto di differenza a suo favore e gli abbinamenti potrebbero essere crudeli. C’è il rischio di dover giocare l’uno contro l’altra. Fortunatamente ciò non accade, giocheremo contro due maestri internazionali del centro europa dai nomi impronunciabili.

La notte riesco a prendere sonno molto tardi, dormo solo tre ore , mentre Sandra se la dorme beata con un leggero sorriso sulle labbra. Certo, deve fare un ultimo sforzo per non vanificare i buoni risultati ottenuti, ma può dirsi soddisfatta, mentre io non ho avuto grandi picchi di rendimento. Non ho dimostrato talento, solo mestiere, concretezza, e capacità di controllare la tensione fino alla fine. Sandra invece ha dimostrato talento, inventiva e coraggio. Mi sveglio più volte durante la notte, non sono tranquillo. Chi gioca a scacchi in maniera non agonistica, non può immaginare lo sforzo fisico e mentale a cui siamo sottoposti durante un torneo. E non può capire il senso di frustrazione cui andiamo incontro durante un torneo portato avanti al di sotto delle nostre capacità, una sconfitta, specie se meritata, o inevitabile, non crea alcun tipo di problema, ma giocare una partita al di sotto delle proprie possibilità, può avere esiti devastanti. Non bisogna solo “saper giocare”, c’è ben altro.

“Sveglia , sveglia Jolao! Siamo in ritardo!”
“Ma ha suonato la sveglia?”
“Sveglia , sveglia, sono le nove !”
“Eh? Ma allora sta iniziando l’ultimo turno!”
“Via via ….vestiamoci e subito in macchina!”
Dieci minuti dopo siamo in viaggio, altri dieci minuti e stiamo varcando il confine di “casa rossa”. Con un certo nervosismo ho visto sfilare il bar goriziano nel quale ogni mattina facevamo colazione. Arriviamo alla sala del torneo in fortissimo ritardo, in sala c’è un silenzio “scacchistico”, si sente solo il tichettìo degli orologi. Dobbiamo giocare la partita con poco più di un’ora e mezza a disposizione.

Sandra, come suo solito, per poter recuperare lo svantaggio di tempo, cerca subito di complicare il gioco, pur muovendo abbastanza rapidamente. Fortunatamente ha i bianchi e per lungo tempo ha lei l’iniziativa. Mentre il suo avversario deve calcolare ogni singola variante, lei si affida al suo istinto femminile, recuperando così parte dello svantaggio di tempo. Esegue continuamente mosse aggressive, costringendo per tutta la partita il suo contendente a tenersi sulla difensiva. Per recuperare tempo ho scelto esattamente la strategia contraria a quella messa in atto da Sandra. Quando manca mezz’ora alla fine della partita, ha conquistato molto spazio per i suoi pezzi, inoltre ha recuperato quasi tutto il tempo che aveva di svantaggio. Psicologicamente ha già vinto, e ben presto minaccia di promuovere a regina il suo pedone più avanzato. Il suo avversario, per difendersi, avrebbe bisogno di tempo, mentre Sandra esegue le sue mosse automaticamente. Alla fine lei vince conquistando il sesto punto, e riuscendo a superare, seppure con lo stesso punteggio, due grandi maestri. E’ quarta assoluta e il titolo di maestra è sicuro.

Essendo la scacchiera di Sandra vicina alla mia, ho potuto seguire di sfuggita la sua partita. La vedo avvicinarsi alla mia postazione di gioco, con uno sguardo le faccio i complimenti e lei mi risponde con il più sfolgorante sorriso che le abbia mai visto, poi con un cenno della testa mi invita a guardare la mia scacchiera. Per recuperare lo svantaggio di tempo ho scelto esattamente la strategia contraria a quella messa in atto da Sandra. Il mio avversario ha aperto muovendo di due passi il pedone di re, ed io ho scelto una difesa tranquilla spingendo di un passo il pedone c. Il gioco si è sviluppato secondo schemi noti, che non richiedono analisi troppo complicate. A centro partita abbiamo cambiato tre pedoni, un cavallo e un alfiere ciascuno. Ho una certa superiorità sulla destra mentre soffro un po’ sulla sinistra della scacchiera.



Ciò che mi preoccupa è la pressione che la donna in c2 e la torre in h4 esercitano sul pedone h7 di fronte al mio re. Inoltre ho una torre in e8 attaccata da un alfiere. Una rapida analisi e nella mia mente si insinua il dubbio che la mia posizione non è delle migliori. Inoltre sul mio orologio restano solo dieci minuti. Ho un unico vantaggio: spetta a me muovere. Realizzo che ho bisogno di una mossa che crei scompiglio sulla scacchiera. Dedico altri tre minuti ad analizzare un’idea “malsana” che mi è venuta. La eseguo. Sacrificio di donna sulla torre h4, e apertura della colonna g controllata dalla mia torre di fianco al re. Il re bianco ha solo due case a disposizione per potersi muovere : h1 e h2. La casa h3 è occupata da un suo pedone, come pure la casa h4. Secondo sacrificio, questa volta di torre sul pedone e4. Ora i problemi sono tutti per il mio avversario. Come si suol dire avevo gettato il cuore oltre il fosso.



Non so se le mie ultime due mosse siano corrette, il fatto è che il mio avversario ha utilizzato molto del suo tempo per decidere di catturare la mia torre col cavallo in d2. Cambio il cavallo col mio e sbarazzo la grande diagonale bianca, controllata dal mio alfiere. Se il bianco si salva dallo scacco matto ho perso la partita. Io ho a disposizione i miei pochi pezzi rimasti, mentre il bianco ha una torre e un alfiere fuori dal gioco. Ora la mossa spetta al bianco. Altri dieci minuti per analizzare la nuova posizione. Il suo orologio segna solo due minuti di tempo, il mio cinque. Muove in fretta, io faccio altrettanto. Ancora dieci mosse e il suo tempo è terminato!!! Ho vinto una partita entusiasmante e ricca di colpi di scena, ma che sofferenza!!! Ho dovuto aspettare l’ultima partita del torneo per riscattarmi. Ora vorrei che il torneo continuasse ancora.



Si avvicina Sandra e mi fa i complimenti.

“Ho dovuto giocare alla tua maniera”.

“Ti insegnerò io meglio come si fa.” dice con la faccia seria.

Ci guardiamo in faccia e scoppiamo a ridere nello stesso momento.

Dopo mezz’ora la proclamazione dei passaggi di categoria: Sandra è finalmente maestra. Io resto candidato. Prima o poi raggiungerò il mio traguardo. Fino ad allora dovrò subire gli scherni della mia donna.

“Aspettami che ti raggiungo”.

Ma non sono sicuro, e se Sandra diventasse maestra internazionale nel frattempo?



Ripenso a quei campionati di quindici anni fa, e a tutte le battaglie che ho dovuto combattere in seguito. Ripenso a tutti i tornei giocati nel frattempo, con la consapevolezza di un giocatore più maturo. Le vittorie, le sconfitte, i pareggi conquistati e quelli che ho dovuto subire, le persone che ho conosciuto, e quelle che mi hanno dimostrato amicizia, le forti emozioni che questo sport mi ha regalato. Ripenso a quanto ho ricevuto ma anche a quanto ho dato: giorni a studiare per non restare un mediocre giocatore, i corsi di scacchi a cui ho partecipato e quelli tenuti da me….. Ma gli scacchi mi hanno dato Sandra……

Gli amici del circolo di cormons organizzano, per il giorno dopo, una cena in onore di Sandra.
“Cosa si mangia?” chiede lei, curiosa.
“E’ una sorpresa.”
“Ma dai, intervengo io, non ci vuole molta fantasia: frico, brovada, civapcic, tocai, castagne e ribolla, verduzzo.

Il giorno dopo vengono a prenderci in macchina, ci dirigiamo verso cividale, entriamo in uno splendido agriturismo con dei vigneti molto ben tenuti, e imbocchiamo un viale di ulivi, intorno piante di noci, castagne e ciliegie. Arrivati all’enorme sala da pranzo, che i friulani chiamano frasca, ci accolgono i gestori che ci fanno accomodare. Non posso fare a meno di notare che le bevande che ho elencato sono tutte presenti, ma del cibo nemmeno l’ombra. Finalmente ci portano delle olive aromatizzate, della salsiccia secca e del formaggio.
“Assaggia Jolao”, mi dice Sandra.
Assaggio le olive e non posso fare a meno di dire ai commensali:
“Ma anche noi in sardegna le facciamo così!” e Sandra ancora:
“Assaggia il formaggio.”
E’ un ottimo pecorino stagionato; che io sappia in friuli non viene prodotto.
“Assaggia la salsiccia” mi fa un altro.
Eh no! Dopo che ho assaggiato la salsiccia ho immaginato che tutti sapessero cosa si sarebbe mangiato al di fuori di me, aveva un forte sapore di anice, che in sardegna viene usata per aromatizzarla.
“Eh, ma allora…..” faccio io, e rivolto ai gestori:
“Ma siete Sardi?”
“Sardi siamo , beni benìu paesanu!” ( benvenuto conterraneo )
Ma guarda che scherzo simpatico mi hanno fatto i cormonesi, Sandra compresa.
“Che sorpresa!”
“Aspetta e asa a biri!” ( aspetta e vedrai )

In quel momento fa il suo ingresso trionfale su una corteccia di sughero e su un letto di pane, sua maestà il porchetto arrosto!
Poi pardulas, seadas, pirichittus e un buon bicchiere di mirto artigianale. Sandra mi fa notare che il mangiare sardo si abbina bene con le bevande friulane.
“E viceversa.” azzardo io.
Due terre così lontane ma così simili. Due terre che per secoli sono state tenute ai margini della civiltà e del commercio. Due nazioni che hanno una storia simile. Sono state invase da molti popoli. E Sardi e Friulani hanno invaso, ma pacificamente, come emigranti, i cinque continenti. E cosa dire dell’amore per la rispettiva lingua e tradizioni? E l’amore dei Sardi per i paesaggi friulani, così diversi dai nostri? E l’ amore dei Friulani per il mare e la macchia mediterranea sarda?

E i tanti morti della brigata sassari venuti durante la prima guerra mondiale a difendere queste terre? Io, che vi ho conosciuto a fondo, penso che voi siate il popolo che più ci assomiglia, e brindo con un buon bicchiere di mirto assieme a voi, alla nostra amicizia, alla amicizia tra due nazioni. Stringo forte Sandra che, seria, mi consegna una busta dentro la quale c’è un foglietto:
“Questo è il mio regalo per te.”

La ringrazio, apro la busta, spunta un foglietto scritto con la calligrafia da bambino. E’ la trascrizione originale di una partita da lei giocata ai campionati italiani giovanili, quando leggo il nome a fianco al suo sono preso da una forte emozione, il suo antico avversario ero io! Ecco chi era quella bambina con i riccioli che le cadevano sulla fronte, la mia Sandra!


Anselmo

Anselmo è nato povero, in una misera casa di fango sul delta del nilo. Visse la sua fanciullezza all'ombra delle piramidi, con la testa impastata da innumerevoli religioni, un miscuglio di sacro e profano, di spiritualità e satanismo, che lo avrebbe reso molto accorto e profittatore delle manchevolezze e delle fragilità dell'umanità. Nacque povero, ma, essendo un ottimo psicologo, riusciva a capire le miserie dell'animo umano, le sue debolezze, e facendo leva su quel dono innato, diventò consigliere e fiduciario degli uomini più potenti della zona. Da quelle conoscenze acquisì ingenti sostanze finanziarie. Era anche bramoso di potere, oltre che di soldi, e il sia pur ricco contesto nel quale aveva fino ad allora operato, non gli bastava più.

Si mise a girare il mondo, spargendo sia il suo seme organico che il suo seme immateriale in tutto il pianeta. La conoscenza profonda di tutte le religioni del pianeta, gli consentì di fondare egli stesso una miriade di sette e nuove religioni. Aveva soggiogato con i suoi poteri una moltitudine di politici, e nel mentre che la sua ricchezza cresceva sempre più, si arrogava il diritto di indirizzare i popoli verso traguardi da lui stesso stabiliti.

Dimenticavo di dire che Anselmo è immortale, e nel mentre, i suoi figli avevano generato molti suoi nipoti, sparsi in tutto il pianeta. Era ricco di tutto, di denari che stampava lui stesso, di case e castelli, di flotte aeree e navali, di satelliti ed eserciti. Aveva tutto a disposizione, governi, società economiche e finanziarie, aveva tutti i mezzi di informazione al suo servizio, aveva pianificato in maniera truffaldina quella che tutti oggi chiamano democrazia, aveva a sua esclusiva disposizione industrie belliche e farmaceutiche, multinazionali e società che gestivano persino gli elementi essenziali per la vita delle persone, come ad esempio l'acqua. A capo di ogni azienda o organizzazione metteva i suoi figli e nipoti.

Aveva capito che l'umanità è stupida e facilmente plagiabile, che la stragrande maggioranza si sottomette volentieri ai potenti. Aveva capito che la gente non ama responsabilità, che aveva bisogno di una personalità forte che indirizzasse il suo cammino. Aveva capito che il plagio e la cultura imposta, erano più forti di qualunque esercito. Aveva capito che era venuto il momento di fondare la religione destinata a dominare su tutte le altre, fece di tutto per reprimere la spiritualità individuale di quella massa di persone, ormai succubi della cultura da lui stesso diffusa e incentivata, ormai la gente ragionava come lui voleva.

Chiamò quella religione nuovo ordine mondiale, e il simbolo non poteva che essere un ricordo ancestrale, una piramide, sormontata da un occhio che vede tutto, il suo. Si gloriò del fatto che l'umanità avrebbe parlato la stessa lingua, rispettato la religione dominante, che si sarebbe sottomessa ad un unico governo planetario, usato la stessa moneta, la sua, ragionato con un unico pensiero, il suo.

E il nuovo ordine mondiale prosperava in ogni dove, ma non era comunque riuscito ancora a soggiogare tutti, alcuni resistevano alle sue imposizioni più o meno reali, o subliminali, si rese conto che non tutti i cervelli erano disposti a sottomettersi al suo strapotere. Sentì parlare di una civiltà antichissima, qualcuno affermava in maniera spudorata che era ben più potente di quella a cui si era ispirato. Pensò che vera forza era nella antichità delle realizzazioni, ed aveva l'esigenza di completare il vertice della piramide, pensò che la fragile arenaria delle piramidi era più debole delle pietre con le quali sono costruiti i nuraghes.

Si recò in sardegna, per scoprire se la sua teoria fosse esatta, e arrivò alla conclusione che le piramidi non potevano competere in fatto di longevità e potenza con i nuraghes. Visitò pozzi sacri, domus de janas, nuraghes, tombe dei giganti, e in ognuna di quelle costruzioni assorbiva delle vibrazioni sconosciute. Era finalmente venuto a contatto con la vera e viva civiltà che aveva generato la civiltà umana.

Quelle vibrazioni lo invasero in maniera così potente, che finalmente riuscì a capire che il male che lui stesso, e la sua discendenza, avevano seminato per il pianeta, erano da abbandonare, riuscì a scoprire che il bene è più potente del male, o almeno rende la sua persona migliore. Si stabilì in sardegna, dopo aver distribuito ricchezze ai suoi discendenti, sgretolò il suo malefico impero, e lo regalò alla gente.

Le sue industrie farmaceutiche smisero di diffondere malattie, i suoi satelliti smisero di distribuire vibrazioni malefiche, l'informazione ridiventò imparziale, sparirono i graffi nel cielo, i governi facevano alfine gli interessi della gente, la scienza divenne etica, si abbandonò parzialmente e gradatamente l'industria petrolifera, furono impiantate foreste sconfinate, si rispettò il mare, la terra e l'aria, e tutti gli esseri viventi presenti nel pianeta.

Si scoprì alla fine che questo è il pianeta della ridondanza, che nascondere risorse, o pianificare guerre e migrazioni, come aveva sempre fatto, non gli dava la soddisfazione di vedere la terra funzionare bene, in serenità e in pace. Decise che il suo compito era terminato, decise di mettere fine alla sua immortalità.



La risacca
Va, si ferma, torna, schiumeggia. 
Acqua trasparente, rifà il cammino. Ora in salita, ora in discesa, ora sorride, ora è triste.
... Albeggia.
Un raggio di sole impertinente si insinua  tra i pensieri
Ah isola infelice, così bella, così aspra, così sferzata dal vento.
Popolata da gente che ancora non ha capito, gente che non usa la ragione
E tu... servo dei malvagi, perchè continui a colpire sulla disperazione della gente?
Non sai che la risacca deve fare il suo corso?
La nostra gente ti maledirà in eterno. Forse ti punirà, forse ti perdonerà,
Ma il suo codice, quello dei tuoi stessi avi, ti ha già escluso... forse dirà che sei un traditore.
Credici, perchè è la verità, perchè la verità non veste alcun abito.
Credici
Perchè la verità è nuda.
Come te. 



Maistu Serapiu
Mio padre mi svelò, poco prima di lasciarci, alcuni segreti che riguardano la casa nella quale abitavamo, e che abito attualmente.
La casa venne edificata, nella sua struttura originaria, da un nostro antico progenitore, che chiamavano Maistu Serapiu. Egli era una specie di re, onorato e soprattutto rispettato dai vicini, che in alcuni casi prendevano ordini da lui.
Lo immagino come un balente guerriero, un condottiero con una spada in una mano, e uno scudo rotondo nell'altra. Lo immagino come un grande navigatore, un grande artista, e un validissimo costruttore. Consegnò a suo figlio dei documenti scritti nella sua lingua, raccomandandogli di trasmettere quei documenti di generazione in generazione, ed ecco che quei documenti sono ora in mio possesso. Mi raccomanda di comportarmi sempre con onore, di essere orgoglioso delle mie origini, e di tenere sempre in ordine e pulita la casa, mi rivela che scavando avrei potuto trovare grandi segreti, grandi tesori, e grandi rivelazioni.
Mi dice che molta gente avrebbe cercato di entrare in casa, per depredarla, e per renderla come una discarica di rifiuti altrui. Mi rendo conto che questo è successo, ma lo scritto di Maistu Serapiu mi viene incontro riguardo alle decisioni da prendere. Mi consiglia, fino a che in casa mia abito con un abusivo, di fare di tutto per preservare i tesori custoditi sotto terra, mi predice che verrà il giorno in cui la mia casa sarà libera da estranei, da stranieri. Solo allora, quando io, o i miei discendenti, avremo l'esclusivo possesso della casa, potremo iniziare a scavare, alla ricerca dei tesori nascosti.
Seppure qualche avvisaglia del grande valore custodito dalla terra, sia venuto alla luce, ad opera dell'abusivo di turno, a sentire il mio progenitore, so con certezza che esso è una miserrima parte dell'immensa ricchezza ancora da scoprire. Per conto mio farò di tutto per far sloggiare l'abusivo, e solo allora comincerò gli scavi.
Non è molto intelligente lasciare che i frutti custoditi e tramandati da Maistu Serapiu vengano sfruttati da gente che non ha nessun diritto a depredare la nostra casa, e che presumibilmente apprezza quei tesori solo per il loro valore meramente materiale, e se non sarò io a buttarlo fuori di casa, lascerò disposizioni ai miei figli.
Quando avvertirò le prime avvisaglie di dover abbandonare la casa per sempre, consegnerò ai figli quei documenti. La storia finisce qui, il messaggio che vorrei dare è che non è il caso di farsi influenzare dalle ultime credenze buoniste, altrimenti definite new age, o similari, il messaggio che comunico è che le nostre radici vanno onorate e preservate, che la nostra appartenenza a questa terra, o casa che dir si voglia, non deve mai venir meno.
Il mondialismo che tutto appiattisce, il mondialismo senza etica, il mondialismo che non possiede un briciolo di spiritualità, si sconfigge con l'onore e con la appartenenza etnica, sarà pure vero che tutti i popoli sono uguali, perchè appartengono alla stessa razza umana, ma ricordiamoci sempre che ci sono popoli più uguali degli altri.



Il fabbro di arborea
In una notte senza luna e senza illuminazione, vengo avvicinato da un tizio, che mi consegna una lettera, pregandomi di pubblicarla sul mio sito jolao77. Mi dice che la storia è reale, ma che ha dovuto cambiare il suo nome e la contrada dove abita, per non essere riconosciuto, del resto nemmeno io lo potrei riconoscere, visto il buio pesto della notte. Lo accontento e pubblico la sua storia.
"Vi voglio raccontare la mia storia, mi chiamo Borangiu, abito ad arborea, sono stato costretto dalle vicissitudini della vita, a fare una attività della quale mi vergognavo, e che ho abbandonato.
Oddio, il mio mestiere non è certo disonorevole, faccio il fabbro, e sono anche molto esperto nel mio mestiere. E infatti, quando ancora c'era la lira lavoravo senza preoccupazioni, tiravo avanti egregiamente. Poi, un brutto giorno arrivò l'€uro, persi pian piano i clienti, non avevano soldi per pagarmi.
Arrivai al punto da non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, e così accettai un incarico che altrimenti non avrei nemmeno preso in considerazione. Mi fu proposto di lavorare per lo stato, dovevo forzare le serrature delle case pignorate. La proposta mi faceva schifo, ma dovevo pur fare qualcosa per campare, e accettai.
Da quel giorno cambiai una infinità di serrature in giro per la sardegna. I problemi si acuirono quando notavo che al mio passaggio, la gente si toccava. Qualcuno mi disse che sono un infame, un altro mi disse che sono un venduto, un altro ancora mi disse che non avevo cuore.
Ho cambiato attività, ma non mestiere. Ogni notte, su richiesta dei pignorati, sostituisco le serrature che io stesso avevo piazzato, e rimetto una serratura nuova di zecca, e consegno le chiavi al legittimo proprietario, che così può rientrare in casa sua.
Chi compra alle aste giudiziarie, in genere, non lo fa perchè ha bisogno di una casa, acquista solo per speculare sulle miserie economiche della gente, e se proprio dobbiamo parlare di miserie, allora bisogna dire che le miserie abbondano, ma nel loro cervello.
Adesso che ho rifiutato di lavorare per uno stato senza onore e senza cuore, che mette per strada tanta gente, la gente al mio passaggio non si tocca più, e qualche lavoretto ancora riesco a racimolarlo, qualcuno mi porta a casa affetto,  viveri, lavoro, e sto in pace con me stesso e col mondo."


Millenoncevento

Metà degli anni novanta. I mitici anni del mille non c'è vento. Ma in sardegna il vento non manca mai. Nemmeno a primavera inoltrata.

Il giorno prima avevamo deciso la direzione da prendere, mai è capitato, quando si andava in gita, di scegliere la località di arrivo, si sceglieva solo un punto cardinale, tutto il conseguenziale era dettato dal caso. Al mio fianco, sulla indimenticata ford sierra familiare di terza mano, che qualcuno aveva pensato bene di dotare di un motore a reazione, dai consumi paragonabili ad uno shuttle interplanetario, sedeva, comoda e rilassata (evento che non capitava spesso) la mia ex moglie. Dal comodo sedile di dietro, di alcantara memoria, provenivano rumori di guerra, e qualche urlo di dolore, erano i miei figli Angela e Francesco, dodici e sette anni. Ci saremmo preoccupati se avessimo sentito silenzio, amiamo i bimbi vispi, anche se a volte creano problemi, le rumorose consuetudini erano destinate a diventare regola.

E in ogni caso mai avremmo voluto due figli dalla tranquillità esasperante. Scegliemmo di dirigerci verso settentrione. Angela impose la destinazione, alghero.

Parcheggiamo sul lungo mare, e ci incamminammo a visitare la cittadina catalana. Francesco venne attirato da un cartellone affisso sulla vetrina di un bar, il quale si avvisava che quel giorno stesso si sarebbe disputato un ricco torneo di scacchi, si sganciò dalla comitiva familiare, e, quando tornò, ci impose il suo programma. Avremmo partecipato al torneo, lui ed io, il problema era come convincere la mamma e la sorella a trascorrere il tempo diversamente dal preventivato, il pargoletto espose subito la soluzione risolutiva, avrebbero partecipato entrambe, visto che erano in palio ricchi premi destinati anche al gentil sesso.

Mia moglie rifiutò categoricamente, ma Angela, vedendo che una sola donna era iscritta, pensò bene di tentare di aggiudicarsi qualche premio, senza sforzo eccessivo. Il problema era che lei non sapeva giocare a scacchi, conosceva solo le regole essenziali del gioco, apprese intuitivamente nel vedere me e Francesco disputare interminabili partite casalinghe.

Mezz'ora di lezione fu sufficiente per istruire Angela su tutti i trucchi che quel semplicissimo gioco comportava, oddio, non era proprio così, ma la piccola disponeva (e dispone ) di una mente velocissima e stratosferica. Francesco le insegnò l'uso dell'orologio da torneo, era ormai pronta per affrontare la competizione.

Essendoci in palio ricchi premi per i ragazzi fino ai sedici anni, il pargoletto era quasi certo di poterseli aggiudicare, dato che lui era una delle migliori promesse dello scacchismo giovanile isolano.

Nutrivo qualche fievolistica (e favolistica) speranziella di ben figurare anche io, mi dovetti ricredere già dalla prima partita, quando inopinatamente ricevetti una sonora lezione da un tizio, uno splilungone il cui viso non assomigliava nemmeno minimamente al prototipo dello scacchista, sembrava piuttosto un agente di riscossione delle tasse, che notoriamente hanno espressioni burbere e poco rassicuranti.

Contento della performance ottenuta contro di me, come si fa tra scacchisti, (scacchisti è una parola grossa), è voluto entrare in relazione extrascacchistica col sottoscritto, e quando scoprì che aveva di fronte un sorrense, mi fece l'elenco delle sue conoscenze del mio paese. Mi raccomandò di salutarli tutti, forse con la speranza che io comunicassi loro la sonora sconfitta subita da lui. Ebbi la conferma di quell'intendimento, dato che alla fine delle partite successive, mi cercava per ripropormi l'invito a salutare per lui le sue conoscenze.

Angela perdeva sistematicamente ogni partita, ma riuscì a battere l'unica altra donna iscritta, quella che poteva insidiare la sua supremazia di genere.

Dopo aver perso l'ennesima partita in breve tempo, mi avvicinai alla postazione che mi interessava seguire, giocavano mio figlio con lo spilungone, quest'ultimo era in leggero vantaggio, ma Francesco, con una geniale sequenza di mosse, e qualche sacrificio molto ben congegnato, lo stese al tappeto, senza possibilità di scampo. Lo spilungone evitò, da quel momento, di venire in contatto con me, timoroso forse che io raccontassi alle sue conoscenze sorrensi la brutta figura subita da un bimbo di sette anni.
Quando arrivò il momento delle premiazioni, Angela ricevette una bella coppa come vincitrice del torneo femminile, con le sue due vittorie e un pareggio, accompagnata da una lussureggiante banconota da cinquanta mila lire, che a quei tempi potevano considerarsi soldi (non come quelle banconote attuali brutte, male odoranti e in definitiva non valide, perchè emesse da organismi non riconducibili dalla gente, ma questo è un altro discorso ). Il suo viso era tutto un sorriso, mi ricordo ancora il raggio di luce che emanava, e poi quella banconota in mani di una dodicenne poteva considerarsi un piccolo, grande capitale.
Francesco vinse alla grande il torneo giovanile, con ampio distacco sul secondo (raggiante anche lui), con in mano la coppa e una banconota dello stesso valore di quella della sorella.
Rischiò per un nonnulla persino di entrare a premi nella classifica generale, sarebbe stato, in quel caso, un risultato strepitoso.
Io mi accontentai di una stretta di mano degli organizatori, riservata ai giocatori senza infamia e scarsa lode.
Dello spilungone nessuna traccia, dal momento in cui è stato sconfitto dal pargoletto, si è letteralmente fantasmizzato alla mia vista. Entrambe le banconote, quel giorno, sono state cambiate e barattate con caramelle, gelati e cioccolatini, per la prima volta nella loro vita, i pargoletti riuscirono persino a offrire ai loro genitori un fumante e gustosissimo caffè catalano. Il viaggio di ritorno fu trapuntato dalla canzoncina classica "noi siamo i campioni, abbiam vinto la battaglia, campioni nazionali ci possiamo dir ".





Il pennello e la matita

Ho incontrato un prestigiatore. E' spagnolo. Si, lo so, oggi come oggi vanno di moda i greci, ma non posso dire che lui è greco se è spagnolo, di madrid. Mi ha detto che le parole sono come il coniglio che esce dal cilindro magico. Quando ho associato il suo nome, Joaquin, al termine prestigiatore, mi ha ripreso.

"Io sono un illusionista, impara a dare il giusto significato alle parole."

E' un artista di strada, ha girato il mondo in lungo e in largo, con la sua donna Carmen, e col suo incredibile furgone che chiamano Esteban. Là dentro ci sta di tutto, incredibile, una altra sua illusione.

Dice spesso: "Prima pensa, poi realizza, se pensi difficile, realizzerai cose difficili, uniche".

Certe volte non lo capisco, e giochi di prestigio non ne so fare. Ma lui si.

Mi raccontò che all'età di cinque anni subì una sorta di illuminazione, ma lui preferisce usare il termine dono. Si trovava, con suo padre, al museo madrileno del prado, di fronte a un dipinto del pittore fiammingo Hieronymus Bosch, intitolato il carro del fieno. Vedetelo, magari dal vivo, non ve ne pentirete. Un dipinto dalla forza evocativa sublime. Non sa esattamente se svenne al cospetto della forza espressiva di quell'opera d'arte, che lui reputa essere la più significativa che l'umanità abbia mai realizzato.

Quando si riprese da quel torpore indotto, si accorse di essere una persona completamente diversa, aveva nel frattempo ricevuto un regalo. Oggi, non sopporta certi termini che uso, mi riprende continuamente, mi dice che le parole sono la risultanza dei pensieri, e se io uso un certo termine, magari imposto da chissachì, automaticamente penso che sia corretto. Quindi, continua, se io uso un termine che non mi appartiene, ma che mi è stato inculcato dalla cultura dominante, in quel momento sto ragionando come vogliono che ragioni.

Mi fa l'esempio della parola razzismo. Se si usa quella parola vuol dire che il razzismo esiste, non è una invenzione. E invece no, è una costruzione dialettica, una illusione, un plagio mentale, che a furia di venire pronunciata diventa reale, e nel sentire comune lo è.

Ma non esiste che la gente sia razzista, perchè non lo è, è un macroscopico plagio.

Mi fa l'esempio di una parola persino troppo diffusa nella mia terra: indipendentismo, mi invita diffidare dalle parole che terminano con "ismo", non sono parole che appartengono alla gente, sono termini inventati dalle elite culturali dominanti per sottometterci dividendoci. Mi chiede di esprimere un termine antico sardo che evochi quel tipo di parola, devo ammettere che non lo ho trovato, non esiste. Obietto che ormai è una parola talmente diffusa tra la mia gente, che è diventata "nostra".
Mi dice che sono un inguaribile condizionato, che usando quel termine, il cervello innesca processi istintivi che portano ad accettarla, accettando il significato intrinseco che evoca: dipendenza. Noi nasciamo liberi, mi dice, non dipendiamo da nessuno, il potere adotta strategie che mirano ad auto considerarci dipendenti da esso, ma nel profondo della nostra mente esiste una altra parola, libertà.
Mi indica un passante, che con l'aria preoccupata, con passo svelto, e con una miriade di scartoffie sotto braccio, si dirige verso il municipio, per soddisfare la necessità che ha il potere di condizionarci, di farci perdere il nostro prezioso tempo, e magari di spillarci un po' di soldini. Lui, e la stragrande maggioranza della popolazione, accetta le imposizioni del potere, altra costruzione fittizia, il mondo è sottomesso per questo motivo. Noi, la gente, riconosciamo i loro mantra, ma non lo dovremmo fare.
Mi spiega che, dopo il contatto con l'opera d'arte custodita al prado, provò a dipingere, ideò un quadro, prima ne decise la struttura costruttiva, poi usò la matita per delineare le linee essenziali, infine distribuì i colori.
La scrittura, un discorso, un quadro, una immagine mentale, sono simili, nascono da una idea, vengono abbozzate prima nella mente, e poi nella realtà. La manualità posseduta certificheranno se la realizzazione è esteticamente valida, l'idea iniziale se è comunicativa, la struttura generale se è funzionale allo scopo. Ma se la mente non è libera di ragionare autonomamente, allora il testo, il quadro, o il discorso, non possono essere originali, sono solo scopiazzature. Ecco cosa fa gente comunemente, scopiazza.
Mi invita a liberare spazi sempre più ampi dalla mia mente, gli spazi attualmente utilizzati dalle informazioni del potere, essi devono essere sgombrati per far posto ai nostri pensieri e ragionamenti che ci vengono dal profondo del nostro intimo, e che hanno inficiato, soppresso, quei processi mnemmonici naturali che madre natura ci ha concesso, e che qualcuno, certo molto furbo, ma che non ci vuole bene, ha ricoperto.
Riprendiamoci la nostra naturalità, rifiutiamo i loro meccanicismi, sono innaturali e penalizzanti, oltre che complicantizzanti, la semplicità ci è congeniale, torniamo alla filosofia eterna che la civiltà contadina ci ha insegnato, la filosofia più vicina all'umanesimo più puro e genuino.
Loro, le fetenzìe mondialiste, senza il nostro lavoro, senza il nostro cibo, senza il nostro ingegno, non saprebbe nemmeno come sfamarsi, come attingere acqua, senza di noi morirebbe in pochi giorni, sparirebbe, evaporerebbe, loro sono il vuoto, noi la concretezza, liberiamocene, liberiamoci delle loro imposizioni, dalle loro idee, dalla loro logica fasulla, dal loro cibo che ci sta uccidendo, e liberiamoci anche dalla loro moneta.

Mi raccomando : libertà, non indipendenza.


Il gallerista

Resistere qualche minuto alle insistenze di uno dei migliori galleristi di cagliari, che vorrebbe quattro quadri di una serie alla quale sono molto affezionato, mi trasmette un certo piacere. Recarmi alla sua galleria dopo due mesi e vedere che i quadri, pure splendidamente incorniciati, non sono stati venduti, ha abbassato di molto la mia autostima. Chiedergli, timoroso della sua risposta, il perchè non siano stati venduti, mi ha tenuto in ansia.
Sentirmi rispondere che lui ha acquistato i quadri solo per esporli per qualche tempo in galleria, con l'idea di sistemarli in seguito nel suo soggiorno, e capire che sarebbero stati venduti cento volte, se lui avesse voluto, mi ha dato una immensa soddisfazione, per tutto il resto non bastano le carte di credito di tutto il mondo.



Vento di sardegna
Il vento che piega le querce mi porta i lamenti della mia gente, il maestrale mi porta la nenia scaturita dalla sofferenza della mia nazione contadina e pastorale.
Il libeccio mi porta suoni e voci che provengono dalla città meno sarda che esista, contrada comandata da finti manager, arrampicatori, faccendieri, ignobili politicanti e ladri in giacca e cravatta.
Il vento dell'est mi porta odori di mirto e uranio e torio, mi porta il lamento di una mamma che piange il suo piccolo ucciso come un agnello sacrificale da radiazioni malefiche e inutili
il vento sulcitano mi porta suoni di guerra, suoni di una inutile guerra, una guerra combattuta in sfregio agli indifesi di tutto il mondo, voglio continuare a vivere in questa terra nonostante.
Voglio combattere per la mia madre terra nonostante.
Non ho paura del sacrificio, se ciò sarà utile alla mia gente, nonostante, nonostante la mia gente, inetta, ignava, e rassegnata.
Il vento soffia forte sulla nostra terra, e ci porta tutte le nefandezze del mondo, e tanta malvagità, e ci invoglia allo scoramento, lo conosco bene, come lo conosci tu.
Ma anche le nostre parole scritte viaggiano, e si fermano, agiscono, e proseguono, dappertutto invadono.
Inondiamo di parole sagge il mondo e la nostra isola, di parole ribelli, non distruggiamo ancora le nostre tastiere, perché finché le usiamo contro di loro, i nostri messaggi sono come le frecce di ossidiana ... fanno crepare il nemico lentamente ...






La frasca
Lavoravo in una prestigiosa azienda vitivinicola friulana, ogni lavoro veniva fatto a puntino, con grande professionalità, ma i riscontri economici per noi operai lasciavano un tantino a desiderare.
Ma tra noi operai si stava bene, una combriccola multi culturale, come piace ai mantra attuali delle oligarchie, ma il punto non è questo.
Il punto è che avevamo una certa tradizione, da rispettare ogni settimana.
Avevamo capito che per contrastare la tirchieria dell'azienda, dovevamo cementare l'amicizia tra colleghi, seppure provenienti da regioni o stati diversi.
Alla fine della settimana lavorativa, che in genere corrispondeva al sabato pomeriggio, ci riunivamo e decidevamo cosa fare, prima di rientrare a casa.
Applicavamo la convenzione che a turno, ciascuno di noi, poteva disporre del tempo dei colleghi, che a quel punto, erano obbligati a soddisfare i desideri del prescelto.
A volte facevamo interminabili partite a biliardino, altre volte andavamo ad un bocciodromo, altre ancora andavamo in una frasca, tipico ambiente furlan, e mangiavamo affettati, bagnati da buon vino del gestore, altre ancora cercavamo una birreria artigianale e dieci colossali calici erano pronti per noi, la fantasia per fare qualcosa di strano o convenzionale non ci mancava, qualunque azione si decidesse, eravamo uniti.
Un sabato il mio collega enologo e agronomo, doppia laurea, grandissimo intenditore di vini, ci disse che aveva un programma a sorpresa niente male.
Siccome spettava a lui decidere il da farsi, come usanza, ubbidimmo, ci portò in una frasca, ma definirla frasca è riduttivo, era un ambiente elegante, a ridosso di una caratteristica cantina, ci chiese di consegnargli venti euro a testa, in modo da comprare un po' di vino.
Venti euroooo?
Per un po'di vino????
Sganciammo i venti euro ciascuno, consegnammo i soldi al cantiniere, che si presentò subito dopo con un piattone-omaggio di lardo di colonnata, e pane, e una semplice bottiglia di merlot.
Quella bottiglia costava 200 euro!!!!!!
Assaggiammo quel vino favoloso, ricavato da una vigna antichissima, e per questo scarsamente produttiva.
Oggi posso dire di aver assaggiato, in quell'occasione, un vino strepitoso.
Certo è che una bottiglia di 75 cc divisa in dieci, basta solo per inumidire appena le labbra.
Veramente poco, ma veramente buono.
Quel giorno, con soli 20 euro, avevamo assaggiato un vino riservato a gente ben più danarosa di noi, poveri operai.
Quando arrivò il padrone della cantina, vedendoci in tenuta da lavoro, non so perchè, forse intenerito dal nostro aspetto non proprio chick, pensò bene di renderci 50 euro.
Ricordo ancora il sapore e gli aromi di quel costosissimo vino, e non mi pento certo di aver fatto una stranezza del genere.
Utilizzammo quei 50 euro in una altra frasca, ben più modesta, ma fornita anche essa di buon vino.
Tornammo a casa con la preoccupazione di evitare pattuglie di carabinieri o poliziotti, forniti di alcool- test.





Zehava-Dan
Forse non tutti sanno che non si muore mai.
Si porta a compimento il percorso terreno, e si rinasce in un'altra contrada, o in un altro tempo.
La notte dei tempi, quelli che i libri di storia non raccontano mai, ci ha lasciato uno scritto proveniente dalla terra di atlantide.
La storia ufficiale, quella scolastica, non racconta che esisteva un popolo che costruiva navi che potevano viaggiare senza bisogno di vele o di remi.
Non racconta che quel popolo realizzava imponenti costruzioni senza bisogno di attrezzature troppo sofisticate.
Non racconta che pietre enormi, venivano spostate e sistemata, da un solo uomo.
Non racconta che nella terra di atlantide esistevano, ed esistono tuttora, ma celati, i giganti.
Non racconta che i resti degli antichi giganti sono stati fatti sparire volontariamente.
Non racconta che la gente di atlantide conosceva, e conosce, i segreti dell'energia, dispensata in maniera gratuita, "anche" dal magnetismo terrestre.
Non racconta che la gente traeva, e trae, energia dal contatto diretto con la terra.
Viveva in quel tempo il re Dan, al centro di quella terra che oggi chiamano sardegna, era un re come tutti gli altri; re esattamente come tutti i suoi conterranei, in quell'isola, che isola non era, tutti erano re.
Viveva e operava da sovrano di se stesso e della sua terra.
Dalla terra e dalle energie della terra, traeva la sua forza, e il suo pensiero progrediva, a stretto contatto con la natura.
Quando portò a compimento la sua esistenza terrena, restò millenni come ibernato, come sospeso dalla storia e dalla civiltà, che intanto regrediva.
Tornò in questa terra in una zona desertica della mesopotamia, là incontrò la donna che avrebbe dato inizio alla sua discendenza, la bella Wajiha.
Non passarono molti lustri, che il deserto venne trasformato in un luogo vivibile e verde.
Wajiha e Dan diedero vita ad una discendenza che avrebbe viaggiato per tutto il globo, alcuni di loro si stabilirono in terra di palestina.
Quella discendenza era destinata a dominare il pianeta intero.
E lo dominava soprattutto con una sua invenzione: il denaro.
Ormai tutto il mondo riveriva quel ristretto gruppo di semiti, che col tempo, da una corretta filosofia di vita, insegnata loro dai progenitori, passò ad una scellerata pratica che avrebbe sottomesso tutta la restante umanità, l'usura.
Il capo indiscusso di quella stirpe, colui che effettivamente poteva decidere, portava il nome di Zehava.
Ora non sappiamo se Zehava fosse la trasposizione di Dan, ma certo delle forti assonanze tra i due esistevano.
I discendenti di Zehava stabilirono nel pianeta terra dei punti di comando, ai tempi nostri il centro direzionale assoluto, si trova a roma.
Da roma dipendono i centri di londra, riga, washington, mexico city, malta, adelaide, lagos e shanghai, oltre a tanti altri minori dislocati in tutto il pianeta.
Oggi quel ramo della discendenza di Zehava e Wajiha viene identificata con il nome di sionista.
Hanno tutto il pianeta a disposizione, governi, eserciti, religioni, ricerche scientifiche, atenei, giornali, satelliti, armi, navi, aerei, e tecnologie che conoscono solo loro.
La piramide che stanno costruendo, è ormai al termine, manca solo il vertice.
Come una moderna torre di babele, però, stanno incontrando delle difficoltà per ultimare la costruzione, è come se manchi un tassello fondamentale, basilare, è come se manchi una intuizione, una idea, una illuminazione.
Per l'ennesima volta, Dan decide di tornare in terra, per fornire loro la soluzione al dilemma.
Fa capire loro che l'indirizzo materialistico adottato è come fatto di fragile arenaria, che il tassello mancante si chiama spiritualità.
Fa capire loro che con la prevaricazione, con il debito, con il dominio mediatico e fisico, non si può raggiungere il dominio assoluto, fa capire che il dominio è una parola vuota, che il far parte dell'umanità, deve essere derivata da simbiosi, da compartecipazione, e non da intrusioni forzose, fa capire che una nuova era è alle porte, che il regno del male, che loro hanno costruito, non porta giovamenti nemmeno a loro stessi.
Fa capire loro che non serve costruire le piramidi in un deserto delle menti, se non si ha la volontà di trasformare quel deserto in un nuovo eden.
Fa capire loro che non tener conto delle proprie radici spirituali, porta alla estinzione morale e materiale.
Dan è tornato alla sua terra di origine, ormai i sionisti hanno capito che costruire piramidi di fragile arenaria, non porta all'eternità, e se proprio vogliono costruire, devono utilizzare pietra dura, pietra nuragica.
Oggi i sionisti, finalmente ravveduti, vengono in sardegna a chiedere consigli e a prendere ordini, e si prospetta così, finalmente, un futuro radioso per tutta l'umanità.
Sanno che se sgarreranno ancora, per loro non esisterà scampo.


Questo libro è dedicato a mio figlio Francesco.
Questi racconti sono frutto di fantasia, ogni riferimento a fatti realmente avvenuti, o persone, è da ritenersi puramente casuale.
Ogni diritto è riservato ©Mariano Abis
























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